Fare impresa in Italia è roba da stranieri. Gli italiani che, negli ultimi dieci anni, hanno scelto di intraprendere la via dell’imprenditoria sono sempre di meno. A differenza degli immigranti, cinesi e rumeni su tutti, che invece hanno iniziato ad aprire Partite Iva, ditte e ragioni sociali. Ma se questa, a tutta prima, sembra rappresentare un’ottima notizia per l’integrazione nel Paese, tuttavia presenta un inquietante rovescio della medaglia: quanto riciclaggio e quante attività illecite vengono svolte anche grazie a imprese intestate a cittadini stranieri e sconosciuti ai database di Fisco e forze dell’ordine?
I dati della Cgia parlano chiaro, nell’ultimo decennio le imprese “italiane” sono calate del 4,7% mentre quelle “estere” sono salite addirittura del 29,5%. Oggi il numero di ditte guidate da cittadini stranieri rappresenta più di un decimo del numero complessivo di aziende operanti in Italia. Si tratta, per la precisione, di 586.584 ditte a fronte di un totale pari a poco meno di 5,1 milioni di ragioni sociali. I settori merceologici “preferiti” dagli stranieri sono tre: commercio, edilizia e ristorazione. Nel primo gli imprenditori sono quasi 195mila, nel secondo 156mila. Se nel primo caso costituiscono il 15,2% del totale di tutte le attività presenti in questo settore, nel secondo si arriva fino al 20,6%. Per quanto riguarda la ristorazione, invece, si parla di 50.210 imprese che rappresentano il 12,7% del totale nazionale. La comunità straniera più attiva è quella rumena con 78.258 imprenditori. Seguono i cinesi, con 78.114 imprese. Quindi ci sono i marocchini (66.386) e gli albanesi (61.586). Tuttavia, la comunità straniera che negli ultimi anni ha registrato un trend di crescita superiore per quanto riguarda l’imprenditorialità è quella moldava (+127%), seguita da quella pakistana (+107%) e infine dagli ucraini (+91%). Se gli stranieri si lanciano nell’avventura imprenditoriale, a scoraggiare gli italiani dalla decisione di avviare un’impresa c’è la burocrazia, regina degli incubi. Poi le precarie aspettative e gli alti costi fissi (affitti, bollette) da sostenere. Nell’ultimo decennio solo in sette province italiane sono aumentati gli imprenditori: Catania, Messina, Cosenza, Siracusa, Nuoro, Vibo Valentia e Palermo. Tutte realtà del Sud. E anche qui vale la regola della medaglia. C’è un lato luminoso, rappresentato da chi si mette in gioco in territori depressi e non certo brillanti dal punto di vista economico. E poi c’è il rovescio più oscuro che chiama in ballo altre, e tristi, realtà.