Rossini, la natura imita l’arte
di Riccardo Lenzi
Di certo il “Rossini” di Andrea Chegai appena uscito per il Saggiatore non rinnova il mito del divino Gioachino: ancora oggi da Abu Dhabi a San Pietroburgo, da Pechino alle Americhe, il suo nome furoreggia nei teatri e nelle sale da concerto, senza bisogno di aiutini di sorta. Ma è la divertente occasione per rivivere questa enorme personalità, che riusciva a riunire nel suo operare, attraverso la musica e le epistole, satira politica, intrecci amorosi, senso del grottesco, generosità, gigioneria, profuse – all’apparenza – incontrollatamente. Un po’ come avviene in certi film di Quentin Tarantino o nelle dinamiche politiche di Silvio Berlusconi, ricordava il compositore Giorgio Battistelli su L’Espresso, Rossini pare rinvispito da una visione patafisica della realtà. Basterebbe rileggere il suo celebre commiato in calce all’ “Agnus Dei”, sul manoscritto autografo di quel capolavoro che è la tarda “Petite messe”: «Buon Dio, ecco terminata questa povera piccola messa. Ė musica sacra quella che ho appena fatto,o che altro? Ero nato per l’opera buffa, Tu lo sai bene! Un po’ di scienza, un po’ di cuore, e il giuoco è fatto. Sia benedetto, dunque, e concedimi il Paradiso». Dove il compositore rimette l’anima a Dio beninteso con l’auspicio, dopo il tributo versato in vita, di poter passare all’incasso nell’altra. Simile ambiguo atteggiamento quando si ritrovò, con il “Guglielmo Tell”, a divenire simbolo della ribellione risorgimentale. Nelle sue lettere si capisce bene come egli odiasse il dispotismo ma, intimorito dai trambusti e dai pericoli delle rivoluzioni, amasse la libertà «senza punto pensare a risvegliarne l’ardore». Insomma, aveva scelto il soggetto del Guglielmo Tell come acconcio a produrre un buon effetto drammatico, punto e basta. Anche nel magnifico “Viaggio a Reims”, sia pure involontariamente, nella carrellata di musiche nazionali con cui inizia il finale, rafforza il carattere politico dell’;opera. Gli ospiti dell’albergo termale, rispolverando la veste di dignitari delle nazioni di appartenenza al tempo della Quadruplice alleanza, si cimentano cogli inni russo, polacco, spagnolo, inglese, francese, tirolese e tedesco (lo canta il Barone di Trombonok, parodia di Metternich). Ove, senza che l’umorismo di fondo ne venga intaccato, viene concesso a Carlo X di Francia il più plenario dei riconoscimenti. Un cinismo pure stilistico, il suo: quando viene criticato quel suo altro grande capolavoro che è lo Stabat Mater perché vi adotta arie e atteggiamenti operistici in un brano che la consuetudine voleva improntato su regole rigidamente liturgiche, non viene tenuto conto dell’estetica del compositore, il quale non mira alla raffigurazione del significato delle parole, bensì a realizzare in forme sonore astratte la perturbazione dell’animo prodotta dai contenuti del testo. È per questo che gioia e disperazione possono trovare sviluppi musicali analoghi, in quanto a essere oggetto precipuo è la condizione di eccitazione psichica, più che le cause di questa. In proposito Bruno Barilli, nel “Paese del Melodramma”, ci ha lasciato una tesi affascinante: in Rossini la natura imita l’arte. Perché il Belcanto prevede che vi siano norme precise, da collegarsi al fisico dell’interprete che produce i suoni, dalla personalità insostituibile, imprevista dal compositore stesso: un testo e il suo attore in carne e ossa, così eterni, così effimeri.
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