La fabbrica dei bambini: dalla frode processuale in Brasile ad una denuncia introvabile nel “porto delle nebbie” di Roma
La storia della fabbrica dei bambini in Brasile, che tempo fa per primi abbiamo cominciato a raccontare dettagliatamente, non è mai stata solo quella personale dell’avvocato italiano Nunzio Bevilacqua che l’ha denunciata avviando una indagine investigativa difensiva con Edson Ribeiro, uno dei più importanti avvocati penalisti del Brasile, per 15 mesi in quattro Stati di quel Paese, tra la città di Florianopolis e la fino a poco tempo fa sconosciuta Tubarao in Santa Catarina.
Tubarao, epicentro di una delle più imponenti operazioni (“Messaggero”) sulla corruzione in tutti i settori della pubblica amministrazione, arrivata a lambire perfino sette giudici ora indagati per “anomale astensioni”. Tra essi quella Liana Bardini Alves che, dopo un parere del procuratore dei minori, fu l’artefice di ciò che Bevilacqua definisce un “giudicato fulminante”, escludendolo da ogni possibilità di immissione di prove o contraddittorio, accollandogli una genitorialità non sua e nei fatti “imbavagliandolo”: ciò che Bevilacqua oggi ritiene di poter indicare una frode processuale, parte di un “sistema collaudato” in maniera inquietante giunto a dipanare i suoi effetti anche in Italia.
Tubarao, la città dell’impunità assicurata al suo storico sindaco dai sette giudici indagati e pure crocevia del traffico di stupefacenti che dal cuore del Brasile arriva a porti come quello di Itajaí – Navegantes a Santa Catarina per espandersi verso l’Europa.
Già in Brasile Bevilacqua prospettava in una denuncia non solo la questione della truffa e la logica integrazione associativa poi intelligentemente considerata da un nuovo procuratore brasiliano ma anche un “odore di corruzione” nell’ambiente della giustizia. Una denuncia che Bevilacqua ripete in Italia e che è riscontrata a Roma da una repentina richiesta d’archiviazione.
Una richiesta di archiviazione che, fuor del legittimo e autonomo giudizio in capo ad ogni magistrato, si fonda in maniera inquietante sulle supposte questioni “palesemente civilistiche” già sollevate frettolosamente in Brasile e su un sedicente “legittimo riconoscimento di paternità” da parte di un laboratorio che – secondo gli atti di indagine mai presi in esame dalla Procura – laboratorio non è, e addirittura su un avallo a questa tesi da parte del perito, già consulente di numerose Procure italiane, Pasquale Linarello impegnato da Bevilacqua in Brasile. Un avallo, invece, mai avvenuto da parte del tecnico, che proverà invano a ribadire le sue tesi con una seconda relazione di smentita alle affermazioni del procuratore brasiliano dei minori, Osvaldo Juvencio Cioffi jr. riguardo ad un “volontario travisamento” delle sue dichiarazioni.
Una richiesta di archiviazione in Italia con un aspetto “troncante” – così nell’atto -: la donna accusata da Bevilacqua sarebbe brasiliana, non si trova e mai si troverà in Italia. Trascurando il fatto che Barbara Zandomenico Perito sia italo-brasiliana, munita di passaporto italiano, libera di entrare ed uscire dal nostro Paese senza l’obbligo di alcuna particolare procedura.
Delle due, l’una: o alla Procura di Roma è sfuggito che la donna sia anche italiana oppure ne era a conoscenza. Nel secondo caso, perché all’udienza preliminare di opposizione all’archiviazione dinanzi alla giudice Elvira Tamburelli il 24 ottobre scorso non è risultata la notifica del procedimento a Barbara Zandomenico Perito in Brasile?
Va ora raccontato che Bevilacqua, avvertito dal suo pool di investigatori guidato dall’avvocato Edson Ribeiro in Brasile circa uno scenario che delineava “una estensione delle attività della “Setta della Matriarca” non solo alle truffe legate alle finte paternità degli stranieri “preferibilmente italiani” – con struttura della Casa geolocalizzata – ma anche alle estorsioni e agli stupefacenti con traffico internazionale”, iniziava a preoccuparsi della sua incolumità personale, all’estero ma anche in Italia.
Ne parlava, allora, con un alto ufficiale della Guardia di Finanza, un generale che conosceva da tempo. A lui dettagliava quanto appreso e da lui riceveva l’indicazione di un luogotenente cui ufficialmente rappresentare la propria denuncia, anche in riferimento alle informazioni generiche pervenutegli su un “colletto bianco” che avrebbe potuto facilmente raggiungerlo nella sua abitazione e nel suo studio di Roma – noti entrambi alla donna denunciata dall’avvocato – per redarguirlo, intimorirlo o minacciarlo per conto dei componenti della setta. Cosa che Bevilacqua faceva, anche integrando a più riprese – a richieste dei militari della GdF – le sue dichiarazioni e le prove documentali acquisite.
Una denuncia – nella quale era espressamente indicato il collegamento con il filone principale a cui si poneva come integrazione – che Bevilacqua e il suo penalista italiano si aspettavano di veder valutata o comunque presente nel fascicolo dell’udienza del 24 ottobre scorso. Denuncia che, invece, non è stata allegata. Quel giorno la giudice Tamburelli comunque non archiviava e fissava una nuova udienza per il prossimo giugno, ritenendo che le ipotesi di reato rigettate dal pm siano comunque valide per poter continuare il procedimento.
A Bevilacqua, però, sono rimasti un legittimo dubbio e tantissime domande sulla sorte della sua più recente denuncia presentata negli uffici della Guardia di Finanza che – lo ripetiamo – illustrava possibili reati legati alla produzione e al traffico di stupefacenti e il conclamato timore circa la sua incolumità personale. Che fine ha fatto? C’è qualcuno che ha deciso deliberatamente di “oscurarla” o di considerarla “fatto non costituente reato” senza nemmeno richiedere l’attivazione di iniziali accertamenti e indagini? Chiederne anche l’archiviazione e farla confluire nel fascicolo in visione alla Giudice avrebbe comportato il rischio per “qualcuno” che si allargasse l’indagine anche per reati più gravi o, peggio ancora, in territorio italiano?
Su questo, una cosa è certa. Lo stesso materiale non “considerato” in Italia, è stato valutato non da una ma due Procure in Brasile per convertire l’originaria indagine da ipotesi di truffa a quella di associazione criminale ed estorsione.
Bevilacqua ha allora provato a sentire nuovamente il generale delle Fiamme Gialle, rappresentandogli anche con alcuni messaggi l’urgenza di raccontargli quanto accaduto. L’alto ufficiale, fino ad allora sempre cordiale e disponibile, però, non è per lui più raggiungibile. Mentre il luogotenente che aveva ricevuto la denuncia, due giorni dopo – il 26 ottobre scorso – riferendogli di non essere più in servizio nel Reparto ove operava, gli ha prima ripetutamente raccontato le modalità tecniche abitualmente utilizzate per acquisire una denuncia e inoltrarla alla Procura della Repubblica di Roma e poi aggiunto una serie di dettagli che non poco, da quel giorno, inquietano Bevilacqua.
Il sottufficiale gli ha riferito, infatti, di “un problema” derivante da quella denuncia. Di questioni anche in passato scaturite dalla trattazione delle denunce in una “cancelleria” di Roma. Di una responsabilità, in merito alla vicenda di questa denuncia, sicuramente non ascrivibile alle Fiamme Gialle, a cui Bevilacqua crederebbe. C’è però un suggestivo cambio di atteggiamento nei confronti dell’avvocato che fino ad allora poteva passare personalmente al Reparto per le questioni relative al “caso”. Adesso, come tenendolo a distanza, gli viene indicata una pec a cui indirizzare tutte le richieste di chiarimenti.
Chiarimenti cui Bevilacqua non intende assolutamente rinunciare. Come abbiamo spesso scritto al termine dei nostri articoli su questi fatti, la storia non finisce qui.
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