Attualità

Renato Curi: mito eterno di una squadra, di una città, di un popolo

di Eleonora Ciaffoloni -


Avremmo tutti voluto ricordarlo solamente come colui che segnò il gol che costò lo scudetto alla Juventus in quel maggio del 1976. Un destro, dalla sinistra, che ha infilato Zoff sotto la Curva Nord. Un grande gesto atletico, quasi magico, per una mezz’ala minuta di poco più di vent’anni che sembrava destinata a solcare i campi delle più grandi. Ma forse, Renato Curi era destinato a qualcosa di molto più grande. Alla gloria eterna.

E in questa sua breve vita, è proprio il destino, beffardo e potente, a decidere di intromettersi: è il 30 ottobre 1977, al Comunale di Pian di Massiano tutto è pronto per Perugia-Juventus. Il cielo è grigio, la minaccia della pioggia è imminente fin dal mattino, ma nulla può fermare le migliaia di tifosi biancorossi che ghermiscono gli spalti. Le cronache diranno 30mila, ma chi c’era lo sa, che tra le scale e i gradoni, si faceva fatica anche a respirare. Un match attesissimo per i Grifoni che entrano in campo quella domenica per giocarsi un primo posto inaspettato, affrontando ancora una volta una Juventus fortissima, ma stavolta da pari a pari.

Il cielo tuona e urla e lo fanno anche i tifosi del Perugia, brandendo con entusiamo le sciarpe e le bandiere biancorosse. Tutto si ferma, per sempre, al quinto minuto della ripresa. Il cronometro segna 52′ e Renato Curi con la sua maglia numero 8 scatta all’altezza del cerchio centro del campo quando, improvvisamente, si accascia a terra. Nessuno in quel momento si può immaginare che la vita del talentuso centrocampista verrà spezzata da un malore, da lì a pochi momenti. Le maglie rosse e quelle bianconere si accalcano attorno al ragazzo che viene trascinato fuori in barella, senza, purtroppo, poter far nulla per salvarlo.

E come dicono i grandi dello spettacolo “The show must go on”: la partita continua, Curi viene sostiuito e la partita volge al termine a reti bianche. Nessuno pensa ormai più al risultato, la mente dei compagni di squadra, degli avversari e dei tifosi è occupata dalle immagini di Curi trascinato di corsa fuori dal campo. Quel campo dove ha dato tutto, dove ha corso, ha segnato, ha gioito, ha esultato e dove con onore si è battuto fino all’ultimo respiro. La notizia della sua morte arriva solo ore dopo e pervade di tristezza e di lacrime tutta la città. È forse la tragedia più grande per la città di Perugia e per il Perugia, ma è anche la nascita di un mito che invece, non morirà mai. Una leggenda in carne ed ossa che ancora oggi, dopo 47 anni, occupa i cuori di grandi e piccoli.

Forse è stato ancora una volta il destino a decidere che a lui sarebbe toccata la maglia numero otto, a decidere che su quello sfondo rosso, sarebbe stato benissimo quel numero bianco con la forma dell’infinito e che questo sarebbe stato per sempre il simbolo di un attaccamento e di un amore eterno per una squadra, per una città, per un popolo.

Non esiste un tifoso del Perugia che non sia cresciuto con il mito di Renato Curi. Non esiste un tifoso del Perugia che calcando i gradoni di quello stadio che oggi porta il suo nome, non si senta pervaso da quel senso di attaccamento, di sacrificio, di amore viscerale simboleggiato per sempre da quanto quel 30 ottobre 1977 si è consumato sul campo.

Quando a un bambino si chiede di disegnare una squadra di calcio, lui colorerà le magliette di rosso. E se chiedete a un piccolo tifoso del Perugia di scrivere un numero sulla maglia, lui sceglierà l’8. È, come si suol dire, nell’ordine delle cose, e sarà nostro impegno ricordarlo per sempre, di padre in figlio, di generazione in generazione.


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