Cresce il tenore di vita ma le famiglie italiane non investono
Aumenta il tenore di vita delle famiglie e lo fa insieme alle retribuzioni ma solo il 49% degli italiani riesce a mettere qualcosa da parte. Il dato, però, rimane positivo: dopo anni di ristrettezze, di carovita e di problemi legati all’inflazione galoppante in cui le famiglie sono state costrette a dar fondo ai loro risparmi per affrontare i rincari, sta tornando la vecchia e cara abitudine del risparmio.
La ricerca Acri-Ipsos, in vista della centesima giornata mondiale del Risparmio che si celebrerà il 31 ottobre prossimo, restituisce il quadro di un tenore di vita, per le famiglie italiane, che sale addirittura a livelli di soddisfazione superiori a quelli registratisi prima che la pandemia Covid sconvolgesse le nostre esistenze. Per il 49% degli italiani si vive, oggi, meglio di prima e il 64% degli intervistati si dice soddisfatto dalla propria situazione economica. Torna anche un profumo d’ottimismo: il 34% ritiene che le cose, in futuro, potranno andare anche meglio, solo il 15% invece si dice timoroso del fatto che possano invece andare peggiorando. Con queste premesse, il report Acri-Ipsos rivela che il 49% delle famiglie italiane è tornata a risparmiare. E che, passata la buriana, oggi per tre famiglie su quattro (76%) affrontare una spesa imprevista importante non sarebbe un problema. Tuttavia c’è un (doppio) rovescio della medaglia. Le famiglie risparmiano ma il 63% non si fida delle banche e sceglie di non investire i suoi guadagni. Il 63% preferisce tenere i soldi nel materasso (digitalizzato) del proprio conto corrente, così da avere un gruzzolo a disposizione per ogni evenienza. Chi prova a investire, anche per colpa dei tassi che non sembrano affatto invitanti, predilige rischiare un po’ di più. Ma parliamo di un numero di famiglie non proprio maggioritario: si tratterebbe, infatti del 9% (nel 2023 era solo il 7%).
per il 17% degli italiani, infatti, risparmiare è pressoché impossibile così come lo è uscire dalla spirale di povertà e bisogno. Si tratta di un dato preoccupante perché risulta in aumento di ben due punti percentuali rispetto all’anno passato. E che riporta l’attenzione sul lavoro povero, il fenomeno delle paghe basse che caratterizza il mondo dell’impiego nel nostro Paese. Eppure, anche su questo fronte, si registra una certa controtendenza.
Già, perché l’Istat ha rilevato, in un report pubblicato proprio ieri, che le retribuzioni medie italiane sono salite del 3,2 per cento nei primi nove mesi di quest’anno e, solo nell’ultimo trimestre, gli aumenti in busta paga sono risultati superiori a quello dell’inflazione. Però c’è da considerare che le statistiche scontano un difetto strutturale, quello che sussurrò a Trilussa la celeberrima metafora del pollo. I livelli di retribuzione sono saliti perché trainati dal nuovo contratto dei bancari (con paghe superiori dell’11%). Buone, anzi ottime, notizie anche per gli impiegati del settore utilities (+6,7%) e per i metalmeccanici (+6,4%). Nessuna nuova, invece, per edilizia, farmacie private, telecomunicazioni, ministeri, forze dell’ordine, forze armate e attività dei vigili del fuoco che non hanno registrato aumenti apprezzabili. Per quanto riguarda la pubblica amministrazione, invece, le cose sono andate bene se si prende in considerazione l’ultimo triennio. Lo riferisce Aran secondo cui, nel triennio 2019-21, le paghe contrattuali per le funzioni centrali sono aumentate di oltre il 7% facendo segnare impennate che sfiorano il 9,5% nei fatti “ben oltre il 4,19% stabilito dai contratti nazionali di lavoro”. In soldoni, è proprio il caso di dirlo, le funzioni centrali hanno pagato 406 euro a fronte dei 191 previsti mentre per le funzioni locali gli aumenti in busta paga sono stati pari a 205 euro (a fronte dei 176 previsti), per il comparto sanità, invece, s’è registrato un aumento effettivo di 210 euro rispetto ai 186 euro previsti dal Ccnl e per quanto riguarda scuola e università l’aumento effettivo è stato di 180 euro rispetto ai 175 euro previsti. Aumenti importanti, certo, ma che vanno apprezzati al netto dell’inflazione e del carovita degli ultimi anni. Insomma, l’Italia seppur a fatica, inizia a riprendere ossigeno. Ma all’orizzonte, nonostante il miglior tenore di vita per le famiglie, tra tensioni geopolitiche e obblighi imposti da Bruxelles, le nubi si addensano e con esse la sfiducia nei confronti delle istituzioni, in particolar modo dell’Unione europea. Per un italiano su tre, l’Ue è paralizzata dalla burocrazia, dilaniata dai conflitti politici interni tra Stati membri, incomprensibile e non percepita come luogo di democrazia e trasparenza. Scende anche la fiducia nell’euro ma per un italiano su due si tratta dell’unica moneta in grado di assicurare qualche vantaggio nel futuro.
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