Economia

Volkswagen chiude tre fabbriche, la Germania ora (ci) fa paura

di Giovanni Vasso -

epa11688692 An employee participates in an informational event organized by the General Works Council of Volkswagen AG at the company's main plant in Wolfsburg, Germany, 28 October 204. The event will address topics such as wage reductions, possible plant shutdowns, and workforce layoffs. EPA/JULIAN STRATENSCHULT / POOL


Volkswagen chiuderà tre fabbriche in Germania. Per Berlino è un colpo pesantissimo. Per l’Europa, se possibile, è una mazzata ancora più pesante. Il conto alle politiche Ue dell’auto elettrica, dei tassi alti, dei dazi alla Cina, è arrivato. E lo pagherà (anche) la sempre più ex locomotiva d’Europa. Ma c’è ben poco da indulgere alla schadenfreude, alla tentazione – teorizzata dai tedeschi – di voler godere, una volta tanto, della sfiga altrui. Non c’è tempo né motivo: se crolla la Germania dell’auto, crolliamo anche noi. E quel conto, con Berlino, lo pagherà anche l’Italia.

Il gigante di Wolfsburg rivela i suoi piedi d’argilla. Da tempo si addensano nubi sul cielo della Germania e, in particolare, di Volkswagen. Eppure le notizie, finora, parlavano di un terremoto dalle dimensioni più contenute. Qualche centinaia di licenziamenti, non più di uno stabilimento chiuso. I venti che spifferano dalle sale chiuse e agitano le riunioni sindacali davanti ai cancelli aziendali, invece, parlano di un autentico uragano pronto ad abbattersi sul più grande produttore europeo di automobili. Le fabbriche da chiudere, infatti, sarebbero almeno tre. I licenziamenti potrebbero essere migliaia. In più, per chi sopravvivrà alle sforbiciate alla pianta organica, si parla di dolorose rinunce in arrivo. Gli operai, infatti, dovranno rinunciare ai bonus e accettare una diminuzione dei loro stipendi pari al 10%. Complessivamente le perdite per i lavoratori che rimarranno, però, saranno anche superiori e potrebbero essere pari a poco meno di un quinto dell’attuale stipendio. Inoltre Volkswagen vorrebbe scrivere la parola fine sul patto, risalente al ’94 (e quindi a trent’anni fa), di difesa dell’occupazione. I sindacati sono sul piede di guerra. Non accetteranno questa strategia. Non accetteranno, come ripetuto e denunciato già poco più di un mese fa dai lavoratori in piena contestazione, di pagare loro gli errori strategici dei manager. Ig Metall, il sindacato dei metalmeccanici tedeschi, è già in piazza. Da tempo. Le manifestazioni sono già iniziate. Le proteste possono solo arroventarsi ancora di più. Thorsten Groger, responsabile territoriale del sindacato ha parlato di “profonda pugnalata al cuore della forza lavoro” e promette “conseguenze” nel caso in cui Vw “confermerà il suo percorso distopico”. La situazione è gravissima. In Germania, infatti, il colosso di Wolfsburg dà lavoro a 120mila persone in dieci stabilimenti produttivi. Va da sé che, dovessero avverarsi i piani svelati agli operai dal capo del consiglio di fabbrica Daniela Cavallo, gli effetti per il Paese sarebbero devastanti.

I guai, però, sono appena cominciati, perché la crisi potrebbe investire presto anche Audi e Porsche. Con quest’ultima che sconterebbe (grazie ai dazi imposti da Bruxelles) un calo di ordinativi dalla Cina tale da indurre il management a mettere mano a tagli draconiani. Per quanto riguarda, invece, la situazione in casa Quattro Anelli c’è da segnalare che poco più di un mese fa alcuni operai “sequestrarono” duecento chiavi di altrettante automobili, in una fabbrica di Bruxelles, per protestare contro le voci di chiusura della fabbrica.

Il governo tedesco ormai appare in bambola: troppi i colpi che arrivano all’economia, da ogni parte. Dal crac Signa in poi, Berlino non ha più avuto pace. La Germania, e segnatamente il cancelliere Olaf Scholz, rischiano di ricavare dalla vicenda Volkswagen il colpo definitivo da kappaò. Ma chi rischia (grosso) da questa vicenda è pure l’Italia. C’è poco da godere, non c’è da abbandonarsi a quella che proprio i tedeschi hanno teorizzato come schadenfreude, il piacere che deriva dal contemplare la sfortuna altrui. Lo ha detto, al Forum dell’Automotive, il ministro all’ambiente Gilberto Pichetto Fratin: “Siamo strettamente legati alla Germania sull’automotive è come se fossimo un unico produttore. Quello che sta succedendo in Germania con l’ipotesi di chiusura di impianti deve essere gestito o potrebbe avere conseguenze anche per noi”. Stellantis, già in crisi per i fatti suoi, stavolta c’entra poco. Basti pensare, invece, a quante, innumerevoli, aziende italiane meccaniche, di componentistica o, comunque, dell’indotto automobilistico, abbiano deciso di lavorare con la Germania annoverando proprio i maggiori produttori di auto tedeschi tra i loro clienti (o committenti in alcuni casi) migliori e più importanti. La stangata, presto, potrebbe abbattersi sulle imprese, piccole e medie, del Nord Italia a cominciare da quelle lombarde.


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