VISTO DA – In Vermiglio “la scrittura è architettura”
Recensione di Vermiglio, di Maura Delpero
Film dalla radicata oralità, tra il latino lingua del potere (assimilato senza soluzione di continuità all’istituzione ecclesiastica) e della formazione, e il dialetto, idioma identitario che esprime tutta la sua forza in nenie e sonetti augurali, in “Vermiglio” è attraverso la scrittura che si sublima il rapporto d’amore tra i due protagonisti., nessuna parola solo un cuore disegnato al centro del foglio, poi si fa schermo di un tema per chiederla in sposa al padre di lei, il maestro elementare del villaggio, Cesare Graziadei (Tommaso Ragno).
In una lettera la giovane Lucia, e non è il suo nome l’unico richiamo manzoniano nel film con cui Maura Delpero punta all’Oscar per il Miglior Film Internazionale (la cinquina sarà resa nota il 17 gennaio 2025, tra una rosa di 15 film designati entro il 17 dicembre 2024), ripone tutta la speranzosa attesa di rivedere l’amato salvo poi scoprire – attraverso la fredda cronaca di un giornale locale – che quel disertore accolto in casa dalla sua famiglia come un eroe le ha sempre mentito.
La fotografia “pittorica” di Mikhail Kirchman è uno dei punti di forza di “Vermiglio”, già Gran Premio della Giuria – Leone d’Argento all’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: tra le matrici più immediatamente riconoscibili, il Van Gogh dei “Mangiatori di patate” e – ci riferiamo in particolare al personaggio di Virginia (Carlotta Gamba) – il Francesco Hayez della “Meditazione”.
A proposito dei personaggi secondari, Ada (Rachele Potrich) è colei che mostra il profilo più interessante dal punto di vista psicologico: lo spettatore può sentirsi immediatamente coinvolto nel generale senso di smarrimento che la ragazza prova, nella difficoltà a trovare una propria forma e un posto nel mondo, schiacciata dalle prospettive delle due sorelle che, al contrario di lei, sembrano “destinate ad altri cieli”.
Alla fine Ada capirà, ecco un altro punto di contatto col Manzoni (ed in particolare con il personaggio di Marianna De Leiva, la Monaca di Monza), che l’unico modo per essere “vista” è abbracciare la vita monacale.
Dai Promessi Sposi proviene inoltre l’interesse di Delpero per una storia piccola immersa nella Grande Storia: la dimensione privata e “rituale” della famiglia Graziadei e dell’angusto microcosmo che abitano è destinata solamente a sfiorare ciò che accade al fronte, ancora una volta attraverso la scrittura, le lettere e le cartoline che i giovani soldati inviano ai propri cari.
E infine, quello che si consuma sul finale per Lucia Graziadei, una scelta obbligata per sottrarsi allo stigma, è un sostanziale Addio ai Monti.
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