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Altro che dazi, la Cina è già arrivata in Europa

di Giovanni Vasso -


Bruxelles ha fatto un deserto dell’automotive europeo, l’ultimo settore in cui il vecchio (e derelitto) continente poteva ancora dire la sua, e l’ha consegnato a Pechino. L’unica sarebbe soprassedere, una volta e per sempre, alla frenesia green ed elettrica – come chiedono, tra gli altri, i concessionari Stellantis – ma ammettere di aver sbagliato, per l’Ue, sarebbe evidentemente un’onta peggiore di vedere consegnate le chiavi dell’industria europea a un competitor geopolitico (o, almeno, come tale viene presentato) come la Cina. Che intanto, giusto per non farsi mancare niente, sta pensando di investire, con forza, in Turchia per avere uno scalo logistico che affacci sul mercato europeo e le consenta, in barba a dazi e divieti, di abbattere le catene della logistica. La differenza, come al solito, è nella visione. Quella cinese è lungimirante, unitaria e parte da lontano dal momento che la strategia, di cui ora ci si avvede dei frutti, è “antica”. Quella europea, semplicemente, non esiste. Ci sono gli interessi dei singoli Stati nazionali, a loro volta dipendenti dai desiderata dei gruppi industriali che investono sui loro territori e c’è un’ideologia di fondo che, partendo da obiettivi condivisibili (un continente povero di materie prime fossili deve ricavare altrove le sue fonti di energia per ridurre la dipendenza dagli approvvigionamenti stranieri) finisce per arrovellarsi in progetti ideologici che perdono ogni contatto con la realtà. Come il famoso, o famigerato, Green Deal. Di cui l’auto è un pilastro. E la conversione un obbligo, quasi una verità rivelata. Che, però, non resiste alla prova dei fatti. E così, mentre Byd investiva in Ungheria pronta ad allestire qui una fabbrica di auto elettriche a basso costo operativa già dal 2027, Chery siglava una partnership con Ev Motors, pronta a subentrare negli stabilimenti catalani che furono della Nissan-Ebro. Ciò accade mentre il governo italiano continua a trattare con Dongfeng per ravvivare la produzione depressa degli impianti Stellantis e quest’ultima invita, a Mirafiori, Leapmotor a produrre modelli capaci di conquistare il mercato elettrico. Che, per inciso, non decolla e, ormai, sappiamo benissimo perché: le auto elettriche costano assai, di colonnine non ce n’è, l’autonomia non convince a fronte dell’esborso richiesto dalle case produttrici. A meno che non siano cinesi che tagliano i prezzi al consumo non solo per le politiche economiche rispetto al lavoro (ormai un mezzo luogo comune) ma, soprattutto, per l’accesso alle supply chain, alle catene di approvvigionamento di materiali e tecnologie su cui la Vecchia Europa non s’è minimamente interrogata. Ritrovandosi oggi, dopo una pandemia e in mezzo a due guerre, tagliata fuori. Volevano liberarsi del motore elettrico per non dipendere più dagli sceicchi, dipenderanno dai cinesi per le terre rare necessarie alla fabbricazione delle batterie e dei loro componenti. I grandi giacimenti scoperti e annunciati, negli anni, da Ursula von der Leyen e soci non sono ancora, per ovvie ragioni, capaci di fornire all’Europa i materiali di cui l’industria ha bisogno. Ecco spiegate le ragioni del flop. Che, nei giorni scorsi, hanno fatto indignare persino Claudio Descalzi, amministratore delegato Eni. Un manager al di sopra di ogni sospetto. Quantomeno di “simpatie” sovran-populiste. “Se ci focalizziamo sull’automotive, si tratta di una questione importante ma che ci fa anche arrabbiare in quanto la linea della Commissione Ue è insulsa e ridicola”. E non è tutto: “La stupidità uccide, non voglio essere antieuropeo ma sono antistupidità perché la stupidità uccide e ci sta uccidendo in quanto la dobbiamo subire sulla base di ideologie ridicole che ci vengono dettate da una minoranza dell’Europa, non una maggioranza, e noi queste cose dobbiamo continuare a digerirle chinando il capo morendo lentamente”. La Cina non è più vicina, ma dentro l’Europa. Solo che Bruxelles teme di fare l’unica cosa giusta che potrebbe fare: ammettere l’errore, azzerare le imposizioni e la burocrazia di palazzo, e lasciare che l’economia pensi a rimettere le cose (in questo caso quelle dell’auto) a posto.


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