Cultura & Spettacolo

Il Teatro “degli errori” e l’importanza di sbagliare

di Michele Enrico Montesano -


Il teatro degli errori – Il termine “mistake phobia”, ovvero fobia dell’errore, di Amy Edmondson riassume e descrive bene la società contemporanea. Il sistema scolastico italiano nozionistico e non critico – inteso nel senso etimologico del termine, dal greco κρίνω ossia giudicare – educa fin dall’infanzia a fuggire dal fallimento. È da comprendere alla luce di questo diktat ministeriale il celebre caso della studentessa del liceo Montanari di Verona. Interrogata in Dad le è stato chiesto di bendarsi per non copiare. Perché le nozioni sono l’unico criterio su cui si basa il giudizio. Più che insegnare ad apprendere, si insegna la paura di sbagliare. L’errore è demonizzato. Uscire dagli schemi, imposti, prefissati è un demerito. Tutto si misura con questo. Un allievo che non sbaglia è un allievo lodevole, e questo pensiero si riporta in società, dove il fallimento viene colpevolizzato. Gli studenti si identificano con il voto. Prendere un 4 significa valere 4. Ma il voto non è il volto. Sbagliare invece è propedeutico. Sbagliare vuol dire uscire dalla solita via che si percorre per conoscerne di nuove. Il fondamento della clownerie è proprio la ripetizione dell’errore. Uno dei loro principi è che l’errore non esiste. Niente è errore. La clownerie utilizza ogni imprevisto a proprio vantaggio per utilizzarlo nella performance.

Miles Davis ha detto “quando si prende una nota sbagliata, è la nota successiva che si suona a determinare se è buona o cattiva”. Fondamentale è il modo a cui rispondiamo all’errore. Più in generale, errare è proprio del Teatro e contiene una duplice interpretazione del termine. È errante perché per natura gli spettacoli, gli artisti, sono destinati ad errare, muovendosi continuamente in lunghe tournée. Secondo poi, è errante perché lo sbaglio, l’imprevisto, sono organicamente presenti. Per arrivare al debutto, gli attori sostengono un periodo di lavoro definito “periodo di prove”, dove si sperimenta tutto, secondo Artaud “dovremmo provare talmente tanto da prevedere anche l’imprevedibile”. Solo attraverso l’errore, sulla tortuosa strada dell’ignoto, la compagnia porta a compimento un viaggio straordinario fatto di scoperte, di emozioni dell’altro. Meryl Streep, disse: “Sono curiosa verso le altre persone. Questa è l’essenza della mia recitazione. Recitare non vuol dire essere una persona diversa. È trovare la somiglianza in ciò che è apparentemente diverso, e poi ritrovarmi”. Nella società odierna, sempre più globalizzata e globalizzante, queste parole tuonano come rivoluzionarie. Oggigiorno si cerca solo quello che si conosce. Catene di fast food aprono in tutto il mondo per dar da mangiare lo stesso cibo di tutti i giorni a migliaia di chilometri di distanza. Il funzionamento dei social è volto a cristallizzare e polarizzare l’utente. Bloccato in ciò che conosce, ma il corpo umano non è fatto per stare fermo. Gramsci nel 1917 recensisce il Piacere dell’onestà di Pirandello: “Pirandello è un ardito del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero»” Tramite il Teatro abbiamo la possibilità di uscire, di deviare, di errare un po’.

Siamo diseducati all’affrontare lo scoppio di bombe a mano nei nostri cervelli. Come scrive Edmondson “non è che dobbiamo esaltare l’errore, non è che dobbiamo votarci all’errore ma non dobbiamo aver paura dell’errore perché nel momento in cui si sbaglia significa aver fatto un passo in avanti, verso una zona che non conosciamo”. Vestire i panni di un personaggio significa distaccarsi da sé. Curioso come la parola personaggio derivi da persona, a sua volta derivata dall’etrusco phersum e ancor prima dal greco πρόσωποv, ossia “maschera”. La maschera ha in sé un aspetto antropologico. “Ci sembra quindi che l’analisi della presenza della maschera alle origini della rappresentazione teatrale abbia potuto confermare le condizioni fondamentali del rapporto di questo oggetto con l’uomo. (…) È la storia della parola latina persona. Dapprima vuol dire “maschera”, la maschera che l’attore porta sul volto nella rappresentazione teatrale. Nel vocabolario teatrale la parola si allarga quindi a significati vicini: il personaggio, la parte. È facile capire come da qui passi alla terminologia dei tribunali, perché il processo, la lite, sono come rappresentazioni in cui ognuno agisce con una funzione rappresentativa, sia di altri che di se stesso”. Per il sociologo e filosofo Alessandro Pizzorno, persona, maschera, recitare sono accomunati, è impossibile scindere il Teatro dall’essere umano. Si dovrebbe ripartire da questa condizione ancestrale. Dall’ultima metamorfosi in Così parlò Zarathustra. Quella del fanciullo. Nietzsche gli attribuisce caratteristiche propositive. Il fanciullo dice sempre di sì alla vita. Si diverte, vuole giocare – e ci riesce – nelle situazioni più assurde. Vede il bello e l’armonia anche dove non c’è. Il filosofo tedesco sostiene anche che l’artista deve incarnare questo spirito. Per generare bellezza deve farsi soffio vitale di una gioventù e primavera senza tempo. Tutti possiamo provarci… e se dovessimo fallire? Sbagliare non è un errore.


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