Giustizia

Processo Salvini, ora le toghe rosse gridano all’allarme sicurezza

di Rita Cavallaro -


Le toghe rosse prima fanno i comizi e, quando si scatenano i leoni da tastiera, gridano all’allarme sicurezza: Era prevedibile, e ormai tragicamente normale nello sfogatoio dei social, che il processo politico a Matteo Salvini richiamasse gli haters di tutta Italia contro i pm che hanno chiesto la condanna a sei anni di galera per il leader della Lega, accusato di aver sequestrato i 147 migranti sulla Open Arms, nell’agosto del 2019. A finire nel mirino degli odiatori sono stati i tre pm del processo che sta andando in scena nell’aula bunker del Tribunale di Palermo: Marzia Sabella, Gery Ferrara e Giorgia Righi. I tre magistrati, in questi giorni, sono stati oggetto di migliaia di messaggi di insulti e minacce indirizzate via social, così come avviene quotidianamente a personaggi particolarmente esposti, che vengono presi di mira da utenti di opposti schieramenti politici. I pm, però, sono stati destinatari anche di lettere intimidatorie, ora al vaglio degli inquirenti per cercare di risalire ai mittenti.

Di fronte alla valanga di odio, la Procuratrice generale di Palermo, Lia Sava, ha lanciato l’allarme al Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica, al fine di tutelare l’incolumità dei tre magistrati che, il 14 settembre scorso, hanno chiesto la condanna a 6 anni per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio del ministro Matteo Salvini, al termine di una lunga requisitoria, andata avanti per quasi sette ore, in cui la procuratrice Marzia Sabella ha criticato duramente l’operato dell’allora ministro degli Interni e la sua politica dei porti chiusi. Proprio quella requisitoria, più simile a un comizio che a un’arringa dibattimentale, ha suscitato le polemiche politiche e scatenato una virulenta campagna social. “Siete il cancro dell’Italia, spero nella giustizia divina che prima o poi arriva”, hanno scritto alcuni utenti ai tre pm, mentre le due magistrati hanno collezionato pure insulti sessisti, messi nero su bianco sotto le loro foto al processo. “Vedrai che te la faranno pagare”, hanno aggiunto altri, dilettandosi con auguri di morte ai familiari dei tre accusatori di Salvini.

Post e minacce, insieme alle lettere anonime con le intimidazioni, sono state trasmesse dalla procuratrice Sava sia al Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica, l’organismo che fa capo alla Prefettura e che è deputato a decidere sulle misure di sicurezza, sia alla Procura di Caltanissetta, competente a indagare nei procedimenti che coinvolgono i magistrati di Palermo. Sabella, Ferrara e Righi, al momento, non hanno voluto commentare l’episodio e stanno valutando, in attesa degli sviluppi dell’inchiesta, se perseguire civilmente e penalmente gli autori dei messaggi. La mossa della procuratrice generale di Palermo segue la scia della posizione dell’Associazione nazionale magistrati. L’Anm ha alzato le barricate, sottolineando che il linguaggio del governo era “irresponsabile”.

La reazione era arrivata dopo che la premier Giorgia Meloni, appresa la richiesta di condanna e l’entità della pena, aveva definito “un precedente gravissimo” quello di infliggere una condanna a un ministro che aveva fatto soltanto il suo dovere e aveva difeso i confini nazionali. E anche dopo il video messaggio dello stesso Salvini, che ribadiva come, seppure potesse tornare indietro alla luce del processo e dell’eventuale rischio di andare in carcere, avrebbe comunque chiuso i porti, in base a quanto previsto dal decreto sicurezza del governo Conte 1, un atto di tutto l’esecutivo ma per il quale a processo ci è finito solo l’allora ministro dell’Interno. Salvini, nelle interviste successive, ha poi ribadito che ““non ho nulla di cui pentirmi o da patteggiare perché ritengo di non essere un sequestratore né un delinquente, ma un ministro che ha fatto il suo dovere”. Il leader della Lega è convinto: “Ho salvato vite, applicato la legge, difeso i confini, ridotto il numero di morti, dispersi e feriti. ho ridotto anche il numero dei costi e problemi per gli italiani, difendere i confini non è un reato, sei anni di reclusione è la richiesta della pubblica accusa, ci sarà un giudice che deciderà”.


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