Rebecca Horn, con i “Bodylandscape” spiegò come liberare l’anima dall’inquinamento
Ha chiuso gli occhi per sempre all’età di 80 anni, Rebecca Horn. La sua mostra, “Hause der Kunst”, ospitata dalla città di Monaco di Baviera dal 24 aprile scorso, sbarrerà le porte, il 13 ottobre. Una raccolta antologica che copre sei decenni della carriera di una donna che, dai primi anni ’60, fino ad oggi, ha vestito i panni di body artist, coreografa e regista. Il suo lavoro artistico, danzando su pavimenti scivolosi e pionieristici, ha dato prova, anche nella sua scomparsa, di volerci eredi di un’ultima opera, evanescente ed impalpabile.
Debutta con il disegno. È dalla sua governante rumena che apprende questa prima disciplina. Lei, nata e cresciuta in Germania, alla fine della Seconda guerra mondiale, ovunque si trovasse, si sentiva respinta per una nazionalità ed una lingua, quella tedesca, che la macchiava di un immeritato peccato originale. Trova così, nell’illustrazione, la sua prima libertà di espressione. Un modo per raccontarsi senza dover “disegnare in tedesco, francese o inglese” ma semplicemente attraverso figure e forme universali. Partorendo una lingua che non aveva appartenenza ma solo ali per volare.
Tra il 1968 ed il 1972, si allinea al movimento della Performance art, creando una serie di opere, rimaste nella storia del costume, con il titolo unico, di Personal Art. Prima di aderire a questa corrente, da giovane sperimentatrice, negli anni ’60, si cimenta in sculture fatte di fibra di vetro e poliestere. A causa della tossicità di questi materiali, Horn subirà gravi danni polmonari, che la costringeranno a rimanere in un letto di ospedale per molti mesi. Questa paralisi fisica sarà, al contrario, motivo di grande tumulto creativo e la porterà a concepire le sue prime sculture” indossabili “. Il suo sarà un “corpo aiutato”, in grado di raccontarci dell’essere, tramite prolungamenti e protesi, estensioni meccaniche di arti vivi, delle quali si servirà per toccare e farci percepire il suo reale. Nelle indimenticabili creazioni di Horn, l’artista si avvale di strutture in legno, metallo e tessuto. Ricordiamo le ali di tela che toccano terra, nell’opera White body, i guanti dalle lunghe dita, nell’opera Finger Gloves, l’iconico Unicorno, nell’opera Einhorn, per citarne solo alcune. Questi marchingegni contemporaneamente affrancano e limitano il corpo.
Tutte hanno un denominatore comune, il tatto, come senso del toccare e del toccarsi, del mettersi in relazione con qualcosa o qualcuno. Una specie di rapporto performativo, inteso come un insieme di gesti e azioni, volti a sperimentare gli spazi esterni con protesi di diversa composizione. Poi la svolta, in cui la figura umana diventa presenza assente. È il tempo dei lungometraggi, dei mediometraggi e soprattutto dei meticolosi e fluttuanti meccanismi delle sculture cinetiche. Questo corpus di nuove realizzazioni in movimento, sono un’evoluzione del suo interesse per il moto, portato dal corpo allo spazio. In questi ingranaggi, solitamente di timbro maschile, Horn riesce ad infondere un tocco diafano e femminile ma anche pericoloso. E questa dicotomia è espressa prediligendo elementi quali: lame e piume, ghigliottine e polvere, mercurio e acqua. Andando ancora avanti, catalizza la sua attenzione sull’animo umano e nel 2022, in una personale a Napoli, “Lo stato dell’anima”, propone cinque sculture e tre Bodylandscape, grandissimi disegni che corrispondono esattamente alla massima estensione del suo corpo.
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