epa11039714 A logo of the Court of Justice of the European Union (CJEU) is seen on the Salle d'audience III where the court will issue a ruling on the Super League case, in Luxembourg, 21 December 2023. The Court ruled that the FIFA and UEFA rules making any new interclub football project subject to their prior approval, such as the Super League, and prohibiting clubs and players from playing in those competitions, are 'unlawful'. EPA/Mohammed Badra
Il giorno nero di Big Tech, forse la fine del far west digitale: la Corte Ue stanga Apple e Google. Una mazzata che vale, complessivamente, più di 15 miliardi di euro. Tanta, tanta roba: per capirsi, l’equivalente del superplus commerciale, in calo, dell’Eurozona a giugno. Ma, se possibile, la notizia sarebbe ancora altrove. Non tanto e non solo nelle vagonate di soldi che Cupertino e Mountain View dovranno corrispondere. Ma nella fine, sostanziale, degli accordi fiscali di favore accordati dai governi nazionali alle multinazionali per allettarle ad investire sui loro territori. Per questa ragione, il caso più importante appare quello che coinvolge direttamente Apple. Che, dal 1991 e fino al 2014, ha goduto di vantaggi fiscali a dir poco rilevanti grazie a un accordo stilato con l’esecutivo di Dublino. La vicenda, così come quella che interessa Google, affonda le sue radici a quasi dieci anni fa. Quando l’Antitrust Ue sanzionò come illegale l’accordo che concedeva all’azienda di escludere dalla base imponibile gli utili derivanti dall’uso di licenze di proprietà intellettuali detenute da Asi e Aoe perché tali società erano fuori dall’Irlanda e pertanto la loro gestione dipendeva direttamente dalla casa madre negli Usa. Dopo otto anni passati tra ricorsi e controricorsi, la Corte Ue ha fatto felice l’attuale commissario Margrethe Vestager: quegli accordi, come rilevato già nel 2016, concretizzavano un aiuto di Stato illegale e, pertanto, Apple deve restituire fino all’ultimo eurocent a Dublino. Il conto è salatissimo: si parla di (almeno) tredici miliardi di euro. Vestager ha esultato parlando di “vittoria per la Commissione” e di passo avanti sul fronte della “giustizia fiscale”. Un tema caldissimo, per l’Europa, visto che si parla con insistenza di unione (vera) e di equità economica e commerciale che passa anche (se non soprattutto) dalla fine del tax ruling, ossia dalla libera contrattazione tra multinazionali e governi per stabilire quante tasse dovranno pagare. Apple, dal canto suo, è scoraggiata: “Questo caso – sottolinea Apple in una dichiarazione rilasciata all’Adn Kronos – non ha mai riguardato la quantità di tasse che paghiamo, ma il governo a cui siamo tenuti a pagarle. Paghiamo sempre tutte le tasse che dobbiamo ovunque operiamo e non c’è mai stato un accordo speciale. Apple è orgogliosa di essere un motore di crescita e innovazione in Europa e nel mondo e di essere sempre uno dei maggiori contribuenti al mondo”. Stando a quanto dicono dall’azienda, quegli utili finiti al centro della querelle sono stati già tassati negli Stati Uniti dove il gruppo ha pagato circa venti miliardi di dollari di tasse. Infine, da Apple ribadiscono di aver correttamente pagato le tasse previste dalla legislazione irlandese (nella misura del 12,5%) per un ammontare complessivo stimato in poco più di 577 milioni di euro tra il 2003 e il 2014. Lo iato tra queste cifre e quelle che afferiscono alla sentenza della Corte Ue restituiscono l’enormità, non soltanto economica ma pure politica, della vicenda.
A cui se ne accompagna un’altra, non meno rilevante. Google, infatti, dovrà scucire 2,4 miliardi di euro per abuso di posizione dominante. Il caso risale al 2017 quando l’Antitrust Ue sancì che il motore di ricerca privilegiava i suoi strumenti di comparazione dei prodotti a discapito della concorrenza. Una decisione che Mountain View contestò ferocemente. E dopo l’ennesimo balletto di ricorsi, s’è giunti alla sentenza della Corte pubblicata ieri: Google deve pagare. Punto e basta. La vicenda, anche in questo caso, non è solo economica. Ma politica. I fatti risalgono a un periodo in cui si stava iniziando a comprendere che stangare Big Tech per decine e decine di milioni di euro non era abbastanza per scoraggiare comportamenti ritenuti scorretti dalle autorità europee. Per questo, oggi, nel Dsa l’ammontare delle sanzioni è commisurato al fatturato. Si capì, anche grazie al caso Google, che gli Over the Top erano (e sono) troppo grandi perché i normali strumenti legislativi fossero davvero efficaci. Anche da Mountain View arrivano commenti negativi alla sentenza. Dicono, da Alphabet, società madre di Google, che si sentono delusi perché la Corte non sembra aver tenuto conto delle modifiche apportate nel 2017 “per conformarci alla decisione della Commissione Ue”, un approccio che, rivendicano, “ha funzionato con successo per 7 anni generando miliardi di clic per più di 800 servizi di comparazione”. Ma la questione, almeno a Bruxelles, era altrove. Ed è per questo che Vestager ha tuonato: “Una pietra miliare per l’Ue, segna un cambiamento epocale per le compagnie digitali: prima di questo caso si pensava che dovessero essere lasciate operare in libertà. Ma questo è un caso simbolico che ha dimostrato come anche le potenti compagnie digitali devono rispondere del loro operato: nessuno – ha concluso Vestager – è al di sopra della legge”. Insomma, forse siamo alla fine di un’era: quella del far west digitale, di un mercato lasciato completamente in balia a pochi e troppo potenti operatori. Bruxelles ci crede e, una volta tanto, seppur a distanza di tanti, troppi anni, ha battuto un colpo.