Sangiuliano, la carta delle dimissioni. La premier non può attendere oltre
Ora, per il ministro della Cultura Genny Sangiuliano c’è solo la carta delle dimissioni. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni non può attendere oltre, per chiudere definitivamente una rogna che pesa come un macigno sulle necessità di una ripresa, dopo la pausa estiva, da misurare innanzitutto con l’auspicata nomina di Raffaele Fitto in un ruolo di reale rango in Unione europea.
La consulente-non consulente Maria Rosaria Boccia, chissà quanto studiatamente o di continuo rimando sui social con le sue “rivelazioni” pubblicate o lasciate immaginare soltanto per non sparire dalla scena mediatica dopo gli abbondantissimi “15 minuti” di Warholiana memoria, è una spina nel fianco del ministro e, di conseguenza, del governo.
Non solo i giornaloni o quelli da sempre dichiaratamente contrari all’esecutivo sono in campo. Il Foglio massacra Sangiuliano chiamandolo “baro”, avanza l’ipotesi che Alessandro Giuli sia in pole position per sostituirlo in caso di dimissioni, apre uno squarcio indispensabile su quello che la vicenda Sangiuliano-Boccia finalmente prova a sdoganare: un’Italia o un’Italietta fatta di vanità e inefficienze in nome della cultura e del turismo.
Una malattia che non ha colore politico e che riporta su questa scena non a caso perfino il “sobrio” dem Dario Franceschini. Non solo ministri, non solo gabinetti ministeriali e uffici dei dicasteri inavveduti e in affanno. A Roma il riflesso di di sindaci in fascia tricolore che pagano cene, buffet, alberghi, voli aerei e chiavi d’oro vero per guadagnare un selfie con il ministro di turno. Sindaci che quasi sempre spendono milioni o centinaia di migliaia di euro per azioni di comunicazione e marketing – la lista è lunghissima – che non sono capaci neanche di far guadagnare una manciata stabile di camere d’albergo in più per il fatturato dell’economia locale.
Tutto questo non quadra con la voglia di cambiare registro che fin qui ha espresso il governo Meloni.
Torna alle notizie in home