L’ultimo romanzo di Cesare Pavese
Il 27 agosto del 1950, Cesare Pavese si toglieva la vita nella stanza 346 dell’hotel Roma in piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione di Porta Nuova a Torino. Il suo ultimo romanzo La luna e i falò, uno dei capolavori della letteratura del ‘900 e libro di formazione per intere generazioni, rappresentò per più versi il viaggio dello scrittore alla ricerca di se stesso e delle proprie origini. Fu il suo testamento letterario, composto in meno di due mesi, tra il 18 settembre e il 9 novembre del 1949, e dato alle stampe nell’aprile del 1950. Pavese scrisse in proposito: “È il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse sempre – non farò più altro. Non conviene tentare troppo gli dèì”. E non solo gli dei, se Pavese scelse di terminare la propria esistenza “nella stanza d’un albergo nei pressi della stazione; volendo morire nella città che gli apparteneva come un forestiero”, come scrisse Natalia Ginzburg. Sul comodino della stanza era posata una copia dei Dialoghi con Leucò su cui lo scrittore aveva lasciato una raccomandazione: “Non fate troppi pettegolezzi”.
Un epitaffio che invitava il mondo a rispettare la sua scelta di andarsene prematuramente e di farlo in silenzio, in punta dei piedi, con quel riserbo tutto piemontese che ha sempre contraddistinto la sua vita. Settantaquattro anni dopo la sua scomparsa i messaggi e i valori che le pagine dei romanzi e dei racconti di Pavese ci trasmettono continuano a essere attuali nella loro straordinaria semplicità e immediatezza, a partire da quello del profondo legame con la terra dove si nasce, quel legame che non si spezza mai e che ciascuno di noi porta dentro di sé perché “avere un paese vuol dire non essere soli sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Perché avere un paese, avere delle radici, un luogo al quale aggrappare i propri pensieri, nel quale rifugiarsi anche nei momenti più difficili come quello che abbiamo vissuto, come quello che stiamo vivendo, significa sapere di appartenere a una comunità con la quale potremo continuare a lottare. Cesare Pavese ha amato molto il Piemonte, le Langhe, le grosse colline nelle quali ambientò i suoi romanzi più belli, trasportando il lettore tra borghi e vigneti, falò e sentieri, tra la sua gente. La lapide posta sulla tomba che custodisce i resti mortali del poeta, trasferiti dal cimitero monumentale di Torino al camposanto di Santo Stefano Belbo nel settembre del 2002, riporta queste parole “Ho dato poesia agli uomini”, una frase struggente che testimonia la forza e l’immortalità dell’arte.
Marco Travaglini (ilTorinese.it)
Torna alle notizie in home