Cultura & Spettacolo

Da oggi anche in casa Rai si parla “Ammericano”

di Nicola Santini -


Da oggi, fino al 26 agosto, a dare la sveglia alle 6.10 al pubblico di Rai2 saranno le dieci puntate del programma “Tu vuò fa’ l’ammericano“, condotto dallo chef Michele Iuliano e Daria Luppino. E a presentarlo a L’identità, chi poteva essere se non Carlo Fumo, che del format è il regista, ideatore, autore e produttore?
Carlo, come nasce l’idea di Tu vuò fa’ l’ammericano?
Principalmente nasce da una romantica promessa che feci a mia zia Italia, la mia cara “zia d’America” che ogni qualvolta commossa mi raccontava i suoi ricordi dell’Italia lo faceva rigorosamente con il suo dialetto “ammericano”, mix di maccheronico inglese slangato americano e puro dialetto meridionale campano. Lei è stata come una sconda nonna per me, viveva vicino Little Italy in The Bronx (che per molti è la vera Little Italy a New York) quella divenne la mia prima casa appena arrivato a NYC a soli vent’anni, nemmeno la conoscevo era venuta una sola volta in Italia quando io avevo 2 anni, ma quando la chiamai la prima volta per la classica ospitalità della prima volta negli USA, non dimenticherò mai le sue parole dopo aver detto che sarei andato a casa sua il giorno successivo, autoinvitandomi in perfetto stile da scroccone meridionale e fiero di esserlo, mi rispose decisa “Non ci sta problema, quando vien la porta è sempre aperta”. Avrei voluto poter comprare la sua casa nel Bronx, farci un museo per gli emigrati e scrivere su una lastra la sua frase che ancor oggi è impressa nel mio cuore a memoria che determinati valori italiani sono un unicum nel mondo.
Com’è nata, invece, la tua amicizia con lo chef Michele Iuliano?
Non molto diversa dal primo approccio con Zia Italia, può sembrare quasi strano ma negli Stati Uniti ci si incontra la prima volta per piacere di parlare italiano, spesso aiutarsi a vicenda, un detto americano dice “Io metto una mano sulla spalla a te e tu la metti a me” ed è davvero così. Michele mi diede un grande aiuto con Italian Movie Award, sia per logistica che per ospitalità nei suoi ristoranti (8 a Manhattan) con i tanti artisti e le personalità che abbiamo premiato negli anni di Italian Movie Award. Ma la cosa più imporante è stato dimostrarmi in più di un’occasione un’amicizia sincera e spontanea. Ci vogliamo bene e quando mi raccontò la sua commovente storia gli promisi che un se un giorno avessi avuto l’occasione di realizzare un programma negli Stati Uniti, lui doveva essere uno dei personaggi chiave, alla fine è stato davvero così. Sono davvero felice di averlo realizzato grazie e insieme a lui.
Qual è il messaggio che ti piacerebbe arrivasse a casa attraverso questo programma?
In primis che restasse impresso nella mente degli spettatori cosa davvero significhi essere un emigrato italiano negli Stati Uniti. E poi in cuor mio, la possibilità che in qualche modo non si dimentichi questo “slang Ammericano” rigorosamente con due emme, come direbbe qualsiasi vero italo-americano che ha lasciato l’amata Italia negli anni 50,60,70 e 80, ovvero quella generazione che ha forgiato una comunità italiana che ha reso grande l’America anche se si dovrebbe dire gli Stati Uniti ma si sa, per gli Italo-Americani gli Stati Uniti sono l’America.


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