Esteri

Benjamin Netanyahu si scusa per la vulnerabilità di Israele il 7/10

di Giuseppe Ariola -


Benjamin Netanyahu si è scusato per la prima volta per i fatti dello scorso 7 ottobre. Il premier israeliano, da subito finito sul banco degli imputati per la vulnerabilità chiaramente dimostrata da parte di Israele in occasione dell’attacco da parte di Hamas avvenuto dieci mesi fa, in un’intervista rilasciata al magazine americano Time, nel dirsi profondamente dispiaciuto “che sia successa una cosa del genere. Ti guardi sempre indietro e ti chiedi se avremmo potuto fare qualcosa che lo avrebbe impedito”, a una precisa domanda ha risposto: “Scusarmi? Certamente”. Nonostante ciò, ha però confermato alla rivista l’intenzione di restare in carica quanto più a lungo possibile, almeno finché “finché crederò di poter aiutare a guidare Israele verso un futuro di sicurezza, sicurezza duratura e prosperità”, sono state le sue parole. Al netto delle forti critiche interne, sia da parte degli oppositori politici che di quelle provenienti da una fetta consistente del popolo israeliano, e di quelle che a più riprese gli sono piovute addosso a livello internazionale, Benjamin Netanyahu si è quindi mostrato determinato a rimanere in sella. Il premier israeliano è voluto apparire noncurante dello scetticismo che nel corso degli ultimi mesi è andato via via montando attorno alla sua persona, al punto da sostenere con il Time che preferisce “avere cattiva pubblicità piuttosto che un buon necrologio”. Un’affermazione che vuol far trasparire la sicurezza rispetto alla rotta impostata, ma che, al contempo, tradisce la consapevolezza di non avere più il vento in poppa. Per quanto riguarda poi le operazioni militari in corso, Netanyahu ha detto che il “nostro obiettivo è distruggere completamente le capacità militari e di governo di Hamas”, ma ha negato l’intenzione di annettere i territori della Striscia di Gaza o della Cisgiordania. “Non voglio incorporare i palestinesi in Giudea e Samaria come cittadini di Israele”, ha infatti aggiunto, per poi precisare che le popolazioni di queste aree “dovrebbero gestire le proprie vite. Dovrebbero votare per le proprie istituzioni. Dovrebbero avere il proprio autogoverno. Ma non dovrebbero avere il potere di minacciarci”.


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