La Germania va alla guerra del kebab contro la Turchia
La Germania non vuole che al kebab venga riconosciuto lo status di piatto tipico europeo o, per dirla in maniera più precisa, non vuole che diventi, come già lo sono la pizza napoletana e il jamon serrano spagnolo, una “specialità gastronomia tutelata” nel territorio dell’Unione europea. Ma ciò non perché Berlino ritenga la Turchia fuori dall’Europa o perché i tedeschi pensano che la sua cultura gastronomica degna di essere riconosciuta all’interno del pantheon comunitario. Non c’entra neanche lo scontro di civiltà tra Occidente laico e Islam, meno che mai. L’opposizione esercitata dalla Germania nei confronti della richiesta avanzata, ad aprile, da Istanbul (e che ora apre l’ennesima fase di negoziati che durerà sei mesi) è una questione di banale pecunia. O, se preferite, di politica interna. Se qualcuno registrasse il termine döner, parola con cui il kebab è “riconosciuto” nel resto del Vecchio Continente, i prezzi potrebbero salire. E per la classe politica tedesca sarebbe una iattura. L’ennesima. Come è accaduto con gli hamburger in America, il kebab in Germania è diventato a suo modo protagonista dell’ultima campagna elettorale europea. I prezzi del panino con la carne, infatti, sono saliti. E molto. Al punto che, per lucrare consensi elettorali presso i più giovani, l’estrema sinistra di Die Linke ha proposto di utilizzare quattro miliardi di euro di fondi per “calmierare” il prezzo del kebab a 4,90 euro e agevolare un programma di voucher e distribuzione finalizzato a deprimere il costo del panino fino al prezzo politico di 2,90 per i ragazzi, gli studenti e le fasce meno abbienti. La politica del kebab aveva pure un nome: Dönerpreisbremse ed è servita (tra le altre cose) a portare a Strasburgo Carola Rackete, vecchia conoscenza della politica italiana che tra l’altro, in più occasioni, s’è definita vegana.
Il dibattito, che aveva incassato anche la sostanziale vicinanza dei Verdi alle esigenze di chi non voleva pagare fino a dieci euro per il kebab (quando ne costava solo quattro prima che esplodesse con la guerra in Ucraina la crisi energetica che ha innescato l’inflazione in Europa), è stato concluso, almeno nelle sedi politiche e istituzionali, dal cancelliere Olaf Scholz il quale ha s’è prodotto in una lezioncina di elementi base di economia politica ricordando all’opinione pubblica tedesca che nessuno può imporre limiti di prezzo a un bene ma che, al massimo, ciò tocca al mercato. Ma è continuato, sottotraccia, fino alla decisione di Berlino di dichiarare la guerra del kebab alla Turchia. Come sempre accade quando si parla d’Europa e di interessi economici, nella partita sono entrate le lobby. Tipo quella dei produttori tedeschi a cui non è mica piaciuta la proposta turca e che hanno trovato una sponda nelle associazioni locali dei consumatori terrorizzate da nuovi possibili aumenti dei prezzi. Ma Istanbul vuole esercitare il suo soft power e “proteggere” una tipicità che ha conquistato i palati di mezzo mondo facendo adottare, a chi vorrà fregiarsi del titolo di kebabbaro doc, un disciplinare preciso secondo cui potrà definirsi autentico döner kebab solo le fette di manzo e agnello tagliate in cotolette da un minimo di tre a un massimo di cinque millimetri di spessore (che scende a due nel caso di kebab di pollo), tagliate orizzontalmente. Su questo non ci può essere intesa: i produttori tedeschi non ne vogliono sapere di dover dipendere da un protocollo turco né, tantomeno, di dover affrontare la concorrenza di chi consegue il bollino dell’Stg. Insomma, se non è un caso di Stato poco ci manca.
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