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Verso la nuova intesa Cina-Chiesa Cattolica: quale futuro?

di Redazione -


di RICCARDO PEDRIZZI – Quest’anno si è celebrato il centenario del Concilio di Shanghai che si tenne dal 15 maggio al 12 giugno 1924 con due convegni, a Milano (20 maggio, Università Cattolica del Sacro Cuore) e a Roma (21 maggio, Università Urbaniana), nei quali la chiesa Cinese è stata al centro di un approfondito dibattito ed ai quali hanno partecipato vescovi, presbiteri e studiosi cinesi ed italiani ed i vertici della stessa Santa Sede, da Papa Francesco, al cardinale Pietro Parolin Segretario di Stato e al cardinale Luis A. Tagle pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione. I due convegni hanno conferito un significato più profondo alla successiva Giornata mondiale di preghiera per la Cina del 24 maggio, voluta da Benedetto XVI da nel 2007 in occasione di una sua Lettera ai cattolici cinesi nella quale scriveva di nutrire per il popolo cinese “un vivo apprezzamento e sentimenti di amicizia”, “auspicando un accordo” con le autorità di Pechino e varando “il progetto di Accordo sulla nomina dei Vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 sarà possibile firmare”.

Joseph Ratzinger cominciò a occuparsi di Cina prima di diventare Papa, in particolare mentre era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, quando gli venne sottoposta la questione dei vescovi illegittimi, ordinati cioè senza l’approvazione del Pontefice. Alcuni di questi avevano fatto sapere di soffrire per la separazione da Roma e chiedevano il perdono del Papa. Giovanni Paolo II chiese a Ratzinger un argomentato parere teologico. Con la sua Lettera, Papa Benedetto XVI in effetti desiderava manifestare il suo amore e la sua vicinanza alla comunità cattolica che è in Cina.
Dal testo del Documento pontificio emergono due atteggiamenti fondamentali: da una parte, un profondo affetto spirituale per tutti i cattolici in Cina e una cordiale stima per il popolo cinese e, dall’altra parte, un fervido richiamo ai perenni principi della tradizione cattolica. Si è di fronte, quindi, a un appassionato invito alla carità, all’unità e alla verità.

Non è, quindi, un documento politico, pur non potendo ignorare le note difficoltà che la Chiesa in Cina doveva affrontare quotidianamente. Nella Lettera, Benedetto XVI si dice pienamente disponibile e aperto a un sereno e costruttivo dialogo con le Autorità civili al fine di trovare una soluzione ai vari problemi, riguardanti la comunità cattolica, e di arrivare alla desiderata normalizzazione dei rapporti fra la Santa Sede e il Governo della Repubblica Popolare Cinese.
Ma torniamo ai due convegni tenutosi poco tempo fa: alcuni interventi hanno rilevato che il Concilio di Shanghai del 1924 corresse la grave situazione delle missioni che, a molti, sembravano enclave straniere, come fu rilevato dallo stesso Papa Benedetto XV (1919). Naturalmente non è possibile ridurre la vicenda missionaria, che va dalla metà del XIX fino alla metà del XX secolo ad un fenomeno di colonialismo e di imperialismo, eppure questi giudizi negativi sono portati a giustificazione della attuale politica religiosa per cui, si sono sentite queste accuse, in taluni interventi pronunciati nei convegni menzionati.

La verità è, invece, che la gran parte dei missionari fu generosamente impegnata per il bene del popolo cinese, che furono artefici di progresso sociale, culturale e scientifico. Non costruirono cioè solo chiese, ma anche servizi educativi e sanitari aperti a tutti, furono create cliniche, ospedali e orfanotrofi. Ridurre un secolo di attività missionaria come manifestazione di colonialismo ci sembra una comoda rilettura ideologica per auto-giustificare le attuali posizioni politiche illiberali. Non ci sembra un buon argomento enfatizzare unilateralmente gli eventuali errori commessi nel passato.

I due convegni, comunque li si giudichi, sono stati pur sempre occasione di incontro, di dialogo, di passi in avanti per tentare di affrontare le questioni sul tappeto, la prima fra tutte è il problema della libertà della Chiesa in Cina oggi. Alcuni relatori, italiani e cinesi, hanno suggerito giustamente che oggi non si può enfatizzare solo il tema del localismo, ma occorre nello stesso tempo mettere in risalto l’universalità della Chiesa cattolica. Nessuna Chiesa locale può fare a meno della Chiesa universale e del successore di Pietro. Chiediamoci a questo punto quale è la situazione attuale e come ci si è arrivati. Indubbiamente Benedetto XVI ha fatto compiere una accelerazione quanto ad attenzione della Chiesa verso la Cina e la Chiesa cinese. La storia dell’impegno dei papi verso la Cina del resto dura da secoli. Senza l’azione dei romani Pontefici la Chiesa in Cina sarebbe meno cinese e meno cattolica. E questo vale tanto più oggi. Come già detto, la lettera di Papa Benedetto XVI del 30/06/2007 ai cattolici di Cina dette un ulteriore impulso all’azione della Santa Sede verso l’intero popolo cinese, in quanto il papa propose l’elemento spirituale come occasione di rinascita e riconciliazione per il popolo cinese. In quella stessa “Lettera” il pontefice si rivolgeva alle autorità del governo, auspicando un accordo sulle nomine dei vescovi, ma rivendicava allo stesso tempo l’indipendenza in campo spirituale.

E per dimostrare la buona volontà della Chiesa al dialogo aperto e franco, il papa tolse il potere straordinario ai vescovi (clandestini) di nominare loro successori in segreto.
Con questo spirito instituì la Giornata mondiale di preghiera per la Cina, da celebrare il 24 maggio di ogni anno, festa della Madonna di Sheshan e varò anche una “Commissione Cina”. Purtroppo, davanti a tutto questo impegno, allora la risposta di Pechino non fu positiva. Con l’arrivo di Papa Francesco si sono create alcune condizioni per riprendere il dialogo con la Repubblica popolare cinese, che ha portato all’Accordo provvisorio del 2018. Francesco per la verità ha sempre affermato che la Lettera di Benedetto XVI ai cristiani della Cina è una pietra miliare che ispira l’impegno della santa Sede verso questo grande Paese. Sta di fatto però che in realtà l’approccio e la prospettiva con cui l’attuale pontefice ha affrontato il problema sono diversi. Infatti condizione imprescindibile perché ci sia effettiva libertà religiosa – alla quale Benedetto XVI teneva molto – è non solo che la Chiesa sia lasciata libera di predicare sulla fede, ma anche quella di avere la possibilità di denunciare in modo “vivo e stringente” le “forze che in Cina influiscono negativamente sulla famiglia”. Questa richiesta di libertà di parola su vita e famiglia, “non negoziabile” per Benedetto XVI, sembra essere stata lasciata cadere dal suo successore.

A questo punto dobbiamo chiederci: l’accordo segreto con la Cina ha visto cessare le persecuzioni per i cattolici ? Si sono aperti spazi di maggiore libertà religiosa ? La risposta dovrebbe essere scontata. Attualmente il meccanismo funziona cosi: il regime comunista decide e il Papa dà l’assenso. Purtroppo l’applicazione di questa parte dell’accordo non ha fermato affatto la persecuzione di sacerdoti e vescovi che non accettano la subordinazione al Partito Comunista. Ma l’aspetto più rilevante è il fatto che il regime cinese, per qualsiasi atto riguardante la Chiesa cattolica, mai menziona la Santa Sede e il Papa e tanto meno gli accordi. Inoltre il Piano quinquennale per la sinicizzazione del cattolicesimo in Cina (2023-2027), approvato il 14 dicembre scorso dalla Conferenza dei vescovi cattolici e dall’Associazione Patriotica (organismi entrambi sotto il controllo del Partito Comunista) non nomina mai il Papa né la Santa Sede né l’intesa.
E perché – ci si potrebbe chiedere – “non nomina mai il Papa e la Santa Sede; né l’accordo intervenuto tra il Vaticano e la Cina”? Forse perché con sinicizzazione si intende ovviamente la totale subordinazione della Chiesa alle direttive del Partito Comunista.
La Santa Sede è intenzionata a rinnovare comunque l’accordo segreto stipulato con la Cina nel 2018 e poi rinnovato ogni due anni. Lo ha detto il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin: “L’accordo scadrà in ottobre”… “noi speriamo di rinnovarlo”… “su questo punto stiamo dialogando con i nostri interlocutori”.
Mancano però ancora alcuni mesi prima di una decisione definitiva ufficiale, dopo due rinnovi biennali, quest’anno è attesa l’ultima parola sull’accordo. Ci sarebbe quindi del tempo per cercare di spuntare ancora qualche concessione ad un governo cinese che a queste condizioni ha solo da guadagnarci, perché può procedere ad un controllo sempre maggiore della Chiesa cattolica. La questione non riguarda solo la nomina dei vescovi ma il processo di sinicizzazione della Chiesa cattolica che il regime persegue almeno dal 2015 e che diventa sempre più soffocante tanto da continuare incomprensibilmente a negare l’istituzione di un ufficio della Santa Sede in Cina.
Quello di Shanghai del 1924 fu chiamato “Primo Concilio Cinese”. Si prevedeva e si presume perciò che ce ne potesse essere anche un secondo di Concilio sulla Cina. Ci sarebbero tante sfide urgenti e aperte che un concilio potrebbe affrontare: la prima, oltre la definizione e l’ambito di cosa si intende per libertà religiosa in Cina, potrebbe essere quella di superare il conflitto tra cattolicesimo rurale e cittadino; la seconda il coinvolgimento dei laici nell’impegno dell’evangelizzazione; la terza, l’avvio di un’opera missionaria anche per i numerosi cinesi residenti all’estero, tanto per citarne solamente alcune.


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