Cinema

Perdita e ricostruzione, “Dopo Oliver”c’è (ancora) vita

di Martina Melli -


Per gli amanti di Schitt’s Creek come me, è impensabile non guardare il primo lungometraggio scritto, diretto e interpretato da Dan Levy, il meraviglioso David della serie comica. Questo recente progetto cinematografico (uscito su Netflix a gennaio ma poco pubblicizzato dalla piattaforma) parla di un lutto: quello che Marc (Dan Levy per l’appunto) si trova ad affrontare dopo che il suo amato marito Oliver (Luke Evans) muore in un incidente d’auto non meglio identificato (in questa strana nebulosità la prima pecca). Il film si intitola Good Grief ma per il mercato italiano è stato tradotto con un didascalico Dopo Oliver.
Il tema della perdita e della ricostruzione attraverso la necessaria esperienza del lutto (che sia la morte di una persona cara o la fine di una relazione) è sempre molto interessante e da esseri umani sconquassati quali siamo, confortante. Le storie di rinascita in seguito a un evento doloroso offrono calore, speranza e sono di grande aiuto per lo spettatore. Il tema del distacco dal partner, specialmente a causa di una rottura (e qui Levy le combina entrambe perché a morire è il grande amore) è pieno di spunti di riflessione anche controversi e secondo me, nella produzione artistica generale, non viene sufficientemente esplorato. La fine di un amore è un’esperienza terribile che mette (quasi) tutti in ginocchio. Un’esperienza per cui non abbiamo ancora trovato un rimedio né un analgesico efficace, se non quello, brutale, di tagliare tutti i contatti facendo finta che il nostro ex sia appunto defunto. Molti sostengono che la morte di un partner sia “più facile” da accettare della fine di una relazione: è una cosa più grande di noi e siamo costretti a farcene una ragione.
Il film prende una deriva narrativa in questo senso molto apprezzabile perché tridimensionale: l’esperienza della mancanza di Oliver è più complessa e stratificata di quanto ci si immaginerebbe). Ho amato l’estetica del film e il punto di vista di Marc, che ha uno sguardo sul mondo chiaro e introverso allo stesso tempo. Ciò che mi ha deluso invece, e lo dico con dispiacere perché se Levy scrivesse lo spin-off di Don Matteo io me lo vedrei, è la frettolosità con cui vengono mostrati i primissimi mesi del lutto (tre scene incasellate in cui non si capisce quanto sia passato dall’incidente fin quando l’amico Thomas non spiega espressamente “Sono passati solo sei mesi!”). In pochi minuti quindi ci troviamo a un anno dalla tragedia (chiedendoci come abbia fatto, in che modo sia sopravvissuto Marc alla disperazione del quotidiano) perché al regista preme raccontare un viaggio a Parigi con i due amici storici. Un viaggio importante perché teatro di una presa di consapevolezza scomoda e propulsore della tanto agognata svolta verso la vita che ricomincia a girare. Anche i due amici Thomas e Sophie non mi hanno convinto: lei è una fastidiosa macchietta e lui è fuori fuoco. In ogni caso Levy si merita il vostro tempo e la vostra attenzione.


Torna alle notizie in home