La sindrome di Ræbenson, il felice esordio letterario dello psichiatra Giuseppe Quaranta
di ANNALINA GRASSO
L’incipit è di quelli che inducono il lettore a proseguire con curiosità la lettura, e a chiedersi: ma quale episodio accadde a Roma? Il romanzo d’esordio di Giuseppe Quaranta, giovane psichiatra pugliese che esercita a Pisa, dal titolo La sindrome di Ræbenson (Edizioni Atlantide, 2023), è un intrigante ed inquietante viaggio nella mente.
Protagonista del romanzo è lo psichiatra Antonio Deltito, «un uomo alto e sgraziato» che ricorda, al narratore di questa storia, «la figura dell’imprenditore Ambroise Vollard, immortalata nel ritratto colmo di sfaccettature che gli fece Picasso». Altrettanto pieno di enigmi e sfumature sembra essere il disturbo psichico che improvvisamente comincia ad affliggerlo.
Una serie di amnesie, un’alterazione nella visione dei colori, e sbalzi umorali gravissimi, sono solo i primi segni di un declino inarrestabile che porterà alla frammentazione della sua mente in «pezzi di vetro, scintillanti e amorfi». Durante uno dei molti ricoveri ospedalieri, però, Deltito fa una rivelazione: dice di sapere esattamente cosa lo affligge, ovvero la sindrome di Ræbenson, un disturbo che non compare in nessuna classificazione diagnostica, e sulle cui tracce, a detta dello psichiatra stesso, ci sono da tempo degli studiosi, i ræbensonologi, che hanno a cuore soprattutto che la malattia rimanga celata agli occhi del mondo: chi ne soffre sarebbe infatti incapace di morire di morte naturale.
“Il primo episodio accadde a Roma”, frase con cui inizia il romanzo di Quaranta, sembra celare un’altra storia che proviene dal sottosuolo mentale, parafrasando Dostoevskij, più misteriosa, più oscura: le storie portate avanti dalla mente, che accadono nella mente.
Muovendosi tra romanzo psicologico e saggistica psichiatrico-filosofica, tra raffinate erudizioni e mystery, La sindrome di Ræbenson è un gioiello nel panorama letterario italiano attuale che mostra quanto la letteratura sia di supporto alla scienza, anzi quanto molte volte abbia anticipato le istanze, e i concetti della psicoanalisi, come ha dimostrato il critico Giacomo Debenedetti in Romanzo del Novecento.
Il perimetro concettuale-letterario entro cui riflette Quaranta corrisponde alla frammentazione dell’io, alla ricerca della propria identità smarrita, analizzate nelle pagine memorabili del romanzo del’900. Le categorie d’analisi e la logica ordinaria scompaiono, si eclissano: è il congedo del “penso, dunque sono”. Scompare il soggetto, ma non la soggettività.
Quel che resta è il vuoto al centro e mille schegge di interiorità nelle immediate vicinanze, che tramite sensazioni e percezioni distorte e pensieri di pensieri sconnessi rivelano non più il volto dell’uomo, ma un uomo contemporaneo ormai senza più volto.
La sindrome di Ræbenson si presenta al primo colpo d’occhio come una semplice finzione, come la pura e semplice rappresentazione di un gioco cervellotico. In realtà l’opera di Quaranta riflette il malessere dell’uomo contemporaneo, alla ricerca spasmodica della conoscenza, di cosa è davvero possibile conoscere per eludere il pensiero della morte.
La ricerca portata avanti da Deltito resta incompleta, troppe sono le domande alle quali la scienza non sa e non può ancora dare risposta. Nemmeno la morte pare essere più una certezza. Come i vampiri, gli affetti da questa sindrome sono condannati alla sofferenza, alla disperazione di vedere morire i propri cari, nonché ignorati dalla letteratura scientifica.
Tutto, fra i mortali, ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gli immortali, invece, ogni pensiero e ogni azione, sono l’eco di altri del passato, come racconta il legionario romano de L’immortale – il racconto che apre L’Aleph di Borges, autore, tra gli altri, che Quaranta menziona nel suo fortunato esordio romanzesco.
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