Attualità

La pace. Se non ora, quando?

di Adolfo Spezzaferro -


All’indomani dell’attacco dell’Iran contro Israele – con il 99 per cento di missili e droni lanciati distrutto e zero vittime per lo Stato ebraico – si fa un gran parlare di come evitare l’escalation. È tutto un “è giusto che Tel Aviv risponda, ma non subito, altrimenti…”, “è inevitabile la reazione di Israele però bisogna stare attenti a non estendere il conflitto…”.

Quello che stupisce insomma è che si dia per scontata, assodata, per certa la rappresaglia israeliana contro la rappresaglia iraniana a seguito dei raid aerei israeliani sul consolato di Teheran a Damasco.

Chi non mastica di politica estera, diplomazia o men che mai di geopolitica, banalmente potrebbe trarre la conclusione che ora Israele e Iran stanno pari. E quindi se Tel Aviv attaccherà a sua volta poi toccherà di nuovo a Teheran e via così. In una pericolosa escalation dagli sviluppi imprevedibili. Lo scenario è molto preoccupante, perché ieri sera il gabinetto di guerra israeliano ha discusso “diverse opzioni” ognuna delle quali rappresenta “una risposta dolorosa” all’attacco di Teheran ma senza scatenare “una guerra regionale”.

Secondo fonti, l’obiettivo del premier Bibi Netanyahu sarebbe scegliere un’opzione che “non sia bloccata dagli Usa”. Come è noto infatti l’amministrazione Biden ha detto chiaramente al governo israeliano di non rispondere all’Iran, almeno non a stretto giro. Proprio per evitare un’estensione del conflitto. Scenario scongiurato – almeno a parole – da Tel Aviv, che però dice – testuale – che non ha altra scelta che rispondere all’Iran. Questo perché è in gioco la supremazia militare dello stato ebraico nella regione (sebbene sia stata abbondantemente già dimostrata con Iron Dome, che – grazie pure all’aiuto di Usa, Uk e Francia – ha disintegrato quasi tutti i missili e droni partiti dall’Iran.

Ma Netanyahu vuole ribadire che chi attacca Israele verrà a sua volta attaccato. Sempre e comunque. La convivenza tra lo Stato ebraico e i Paesi arabi si basa dunque sul deterrente militare israeliano – è questo il messaggio chiaro e forte di Tel Aviv.

Tuttavia esiste un’altra soluzione, che è quella dei negoziati, degli accordi, la via diplomatica insomma. A tal proposito non possiamo non fare nostro l’appello del Papa. “Nessuno deve minacciare l’esistenza altrui. Tutti le nazioni aiutino israeliani e palestinesi a vivere in due Stati, in sicurezza. È un loro desiderio e un loro diritto. Basta con la guerra, basta con gli attacchi, basta con la violenza, sì al dialogo e sì alla pace”, ha detto Francesco domenica al termine del Regina Coeli. Il suo appello “accorato” – parole del Pontefice – è per il “negoziato, con determinazione”.

Non è un caso che il Santo Padre abbia parlato della crisi tra Iran e Israele e del conflitto a Gaza tra le forze israeliane e Hamas, ribadendo la soluzione “due popoli due Stati” per risolvere definitivamente la questione palestinese. Perché è tutto collegato: Netanyahu deve aprire alla pace, proprio adesso che vorrebbe iniziare un’altra guerra, di gran lunga più pericolosa per la regione (e per il mondo intero). Posizione condivisa anche dal G7 a guida italiana, che condannando l’attacco dell’Iran e invitando alla de-escalation nella regione, ribadisce la volontà di porre fine alla crisi a Gaza.

“Continuando a lavorare per un cessate il fuoco immediato e sostenibile e per il rilascio degli ostaggi da parte di Hamas, e forniremo maggiore assistenza umanitaria ai palestinesi che ne hanno bisogno”. Netanyahu ha rimandato l’attacco finale a Rafah (un bene per i palestinesi) perché ora tocca all’Iran. L’auspicio è che la comunità globale riesca a scongiurare il contro-controattacco verso Teheran. Perché se non è ora il momento della pace, domani potrebbe essere troppo tardi.


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