Napoli, il futuro è digitale con l’hub della ricerca
Attorno ad Apple, là dove una volta c’era la Cirio, è sorto un vero e proprio ecosistema che unisce, attorno all’Università e alla ricerca, gli interessi e gli investimenti di numerose aziende. Dal 2015 il campus di San Giovanni a Teduccio è “frequentato” dai big dell’informatica: Cisco ed Accenture ma anche Deloitte Digital e Tim. Innovazione chiama innovazione.
Giorgio Ventre
Dai capannoni vuoti alle start-up, la nuova vita di San Giovanni a Teduccio. Ventre (Apple Academy): “ Regione, imprese e Università per l’innovazione”
Là dove c’erano i capannoni vuoti di una desolata periferia post-industriale, oggi c’è un hub digitale di prima grandezza che, da Napoli, punta a unire Europa e Mediterraneo nel segno della ricerca e dell’innovazione. Il campus universitario a San Giovanni a Teduccio è (ancora) un cantiere in continua evoluzione. Eppure c’è chi come Giorgio Ventre, direttore scientifico dell’Apple Academy e docente di Sistemi di Elaborazioni di informazioni alla Federico II, può dirsi soddisfatto: quella che sembrava una scommessa si sta rivelando un’opportunità decisiva di sviluppo per il Sud e oltre il Mezzogiorno.
Professor Ventre, come nasce l’idea dell’Academy?
“L’idea nasce da un accordo fatto da Apple con l’allora governo Renzi. L’azienda, il cui chief financial officier è l’italiano Luca Maestri, avrebbe voluto investire in Italia. Il governo non puntò su un’attività produttiva, ma coinvolse Apple in un progetto di formazione su un settore nel quale l’Italia non aveva precedenti. Siamo molto forti nell’ingegneria informatica intesa come grandi sistemi, progettazione e grandi apparati informatici, purtroppo abbiamo minore tradizione per quanto riguarda il settore delle app”.
Come mai a Napoli?
“Perché è stato fatto un ragionamento preciso. Si sarebbe potuto puntare sul centro economico del Paese, Milano. Però il mercato lì è saturo, è difficile e molto oneroso attirare ingegneri e informatici. Farlo al Sud, dunque, avrebbe avuto senso. Sia dal punto di vista politico, per dare un segnale al Mezzogiorno, ma anche perché a Napoli c’è la Federico II che, come numeri e tradizione nella ricerca soddisfaceva i requisiti richiesti. Fu l’Università, grazie al coraggio dell’allora rettore Gaetano Manfredi, a proporre la sede dell’Academy nel proprio campus a San Giovanni che si stava realizzando. Così la Federico II è diventata partner principale del progetto”.
Che obiettivi si pone?
“La nostra idea era quella di creare un’offerta formativa che complementasse quella tradizionale dell’università. La Federico II ha ingegneria, informatica ed elettronica, vanta corsi di studi che sono molto buoni, con numeri eccellenti oltre a risultati didattici e scientifici molto apprezzabili. Il problema è che l’università, in sé, non è in grado di dare quella formazione anche operativa e pratica che consente ai ragazzi di andare sul mercato del lavoro con quelle esperienze e specializzazioni che chiedono le imprese, a maggior ragione nel settore delle app che è nato da poco. Per queste ragioni il nostro obiettivo era e resta quello di dare ai nostri studenti, che arrivano da ogni parte del mondo e non soltanto dalla Federico II, un’offerta didattica complementare a quella tradizionale. Ma non è tutto. Fin dal primo momento abbiamo coinvolto tutti i soggetti del territorio e tra questi anche la Regione Campania, il cui ruolo è fondamentale anche in virtù delle importanti deleghe su innovazione, ricerca, start up e Università”.
Perché è così importante il dialogo con il territorio?
“L’Apple Academy doveva fare un po’ da attrattore di imprese. Nell’economia della conoscenza i territori attirano investimenti se offrono quello che si chiama talent pool, cioé un numero adeguato di conoscenze e competenze che consentano alle imprese stesse di poter crescere. Insieme alla Regione abbiamo lavorato a un ulteriore obiettivo e cioé a fare in modo che Apple Academy e tutte le altre strutture analoghe del campus facessero da attrattore di investimenti nel settore del digitale e in particolare nei lavori a maggior contenuto tecnologico, non solo sullo sviluppo software ma anche per la progettazione, l’innovazione”.
Ci siete riusciti?
“È stato possibile perché la Regione Campania ha messo a disposizione delle risorse che vanno dalle borse di studio per gli studenti delle Academy, a quelle per le start up e gli acceleratori, ha creato interventi finanziari a supporto che hanno rafforzato l’intervento della Apple e poi quello di tutte le altre imprese che hanno lanciato delle iniziative qui, da Cisco ad Accentur e Deloitte Digital, e tante altre. Arriveranno nuove imprese a investire? Certo”.
Come funziona il lavoro al Campus?
“Abbiamo, oltre a tanti interventi, una dozzina di Academy, anche se non necessariamente informatiche. Poi ci sono le iniziative che facciamo con le imprese, insieme alle quali abbiamo aperto spazi dedicati all’innovazione, anzi alla co-innovazione. Sta fiorendo, tra Università e imprese, un ecosistema di start up molto interessante attorno a iniziative in collaborazione con programmi di accelerazione per far sviluppare prototipi che poi possano essere interessanti per aziende come Ferrovie dello Stato, Unicredit, Intesa San Paolo e altre”.
Napoli è la nuova capitale del tech?
“Ammetto che il termine capitale non mi piace molto. Ci rendiamo conto del valore della tradizione e della ricerca dell’università e degli atenei campani, della posizione baricentrica nel Mediterraneo che è molto interessante. Abbiamo avuto la fortuna di avere una governance accademica e una regionale attente e disponibili a investire. Inoltre anche il governo nazionale mette risorse, specialmente per le start-up, e ha creato il Fondo nazionale di innovazione, gestito da Cdp venture capital, cioé da Cassa depositi e prestiti. Ci sono le condizioni per fare bene ma occorre continuare, incentivare le imprese a investire sull’innovazione” .
Si può affermare che a Napoli c’è una vera eccellenza e che dal Sud non è più necessario iscrivere i propri figli agli atenei del Nord?
“Le università campane escono male dalla classifica Censis. Ma va detto che quella graduatoria prende in considerazione alcuni parametri, di sicuro importanti, come il placement e le residenze e non altri, come la didattica e la ricerca in cui le nostre università hanno sempre ottenuto risultati eccellenti. No, l’esigenza di andare fuori non c’è. Semmai c’è quella di far sì che gli studenti considerino questo non solo come un posto in cui studiare ma dove è possibile trovare lavori interessanti e moderni”.
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