Bonanni: “Altro che salario minimo. La sinistra ha distrutto il ceto medio”
RAFFAELE BONANNI
di EDOARDO SIRIGNANO
“I 5 Stelle hanno cominciato una battaglia e la sinistra, non sapendo come uscirne, propone soluzioni peggiori del male che intende curare. Il salario minimo aiuta solo le alleanze politiche, proprio come è accaduto per l’autonomia negli anni 90”. A dirlo Raffaele Bonanni, ex segretario generale della Cisl.
Perché nel Paese si ha difficoltà ad andare avanti?
Nell’ultimo trentennio, ci avverte l’Ocse da oltre un anno, siamo decresciuti del 2,9 per cento per quanto riguarda gli stipendi. Mentre i francesi, al contrario, sono cresciuti del 30 per cento e i tedeschi addirittura hanno oltrepassato questa soglia, la retribuzione italiana, prima superiore di quasi cinque punti rispetto alla media, oggi perde ben dodici posizioni. Siamo di fronte a un disastro.
Come si comportano le istituzioni rispetto a tutto ciò?
Fanno solo retorica. Non vanno mai al dunque e spunta il salario minimo, pur avendoci suggerito l’Europa, che avendo una copertura contrattuale al novanta per cento, essendo un Paese perlopiù formato da Pmi, sarebbe opportuno non entrare nel merito con leggi, che invaliderebbero la sola contrattazione. Basta solo attivare buone pratiche.
Per quale ragione, in Italia, esiste il problema stipendi?
A causa di troppe tasse. Se sommiamo quelle nazionali alle locali, escludendo le nascoste, regalateci dalla politica negli anni, scopriamo che abbiamo superato il carico fiscale tedesco. C’è, poi, una cultura per cui l’aumento salariale non deve basarsi sulla produttiva. Non c’è, infatti, un meccanismo che riconosce merito e competenze.
Come sta affrontando la questione il governo?
L’ultimo decreto ha dato segnali importanti. Non solo riduce il cuneo fiscale, ma detassa gli straordinari, aumenta il gettito da detassare a chi produce. Nonostante ciò, la sinistra parla ancora di salario minimo.
Il ceto medio, nel Paese, intanto, è sempre meno consistente…
È ormai scomparso. Le tasse da una parte e dall’altra un modo sbagliato di indicare le vie dell’uguaglianza, come succedeva ai tempi del comunismo, hanno portato alla scomparsa della parte più consistente del nostro sistema produttivo.
La politica ha capito l’entità del danno?
Assolutamente no! Dovrebbe esserci un ragionamento che va oltre i partiti. Non si tratta di aiutare l’esecutivo, ma di andare oltre una strada, sconsigliataci anche da Bruxelles. Se si volesse, tra l’altro, affrontare il problema che tra l’altro riguarda una porzione neanche tanto grande dell’Italia, ci sono altre modalità.
Quali?
Chi sono i percettori? Chi lavora nelle imprese di pulizie. Queste, pur avendo a che fare con il pubblico, pagano salari da fame. Ci sono, poi, gli operai dell’edilizia, che è sia pubblica che privata, sorvegliata comunque dallo Stato. Ci sono, infine, quelli del terziario. Mi riferisco a chi viene sfruttato da cooperative, che pagano due o tre euro all’ora, ma ricevono sgravi fiscali, aiuti e agevolazioni varie. Se si volesse prendere per le corna il problema, la strada è semplice: utilizzare il documento di regolarità contributiva e legare il non superamento della soglia obbligatoria ai capitolati di appalto, alle concessioni, convenzioni, autorizzazioni e via dicendo. Serve, inoltre, affidare il compito di sorveglianza all’Inps, che riceve tutti gli statini delle aziende, obbligate a segnalare quante ore di lavoro sono state fatte e con quale retribuzione. Così avremo superato l’ostacolo senza fare particolari normative e soprattutto non penalizzando nessuno. Si usano, al contrario, due pesi e due misure.
Perché?
La missione 5 del Pnrr obbliga le imprese a certificare il buon andamento del pari trattamento tra uomini e donne. La normativa dice che tutte le aziende che hanno un comportamento virtuoso potranno accedere a sgravi ed agevolazioni. Chi, invece, non segue la buona prassi viene escluso. È un modus operandi efficace. Perché non esportarlo anche ad altri ambiti, come appunto al salario minimo?
Per quale ragione ciò non accade?
C’è una speculazione enorme, a partire da alcune realtà sindacali. Così il Paese resta fermo e i soliti compagni non ci consentono di guardare al futuro e al contrario ci tengono prigionieri di un passato, ormai diventato una gabbia.
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