In nove mesi l’Italia brucia 32 miliardi
Operai al lavoro per il rifacimento del manto stradale sul ponte dell'Industria soprannominato ponte di Ferro, Roma, 7 dicembre 2021. ANSA/MASSIMO PERCOSSI
In nove mesi l’economia italiana ha bruciato 32 miliardi di fatturato. Ma i problemi non sono finiti qui perché di lavoratori formati e competenti non ce n’è e le stime parlano di un buco di ben 1,3 milioni di unità entro il 2028. I dati di Unimpresa e Fondimpresa restituiscono uno spaccato bruciante dello stato di salute dell’economia italiana. Che, come ha detto allarmato il presidente di Confindustria Emanuele Orsini nei giorni scorsi durante il suo intervento ad Assolombarda al Forum delle relazioni industriali, si trova in uno stato di “grave frenata”. Il centro studi di Unimpresa riferisce che il rallentamento dell’economia negli ultimi nove mesi “costa” a imprese e professionisti qualcosa come 32 miliardi di euro. Si tratta, spiegano gli analisti, della quantificazione in soldoni (è proprio il caso di dirlo) della flessione nel fatturato registratasi rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Se nei primi tre trimestri del 2023 gli operatori economici avevano incassato 2.430 miliardi, adesso se ne ritrovano in tasca 2.398. Ne mancano 32. Una cifra preoccupante. Ma non è tutto, perché, stando al report di Unimpresa, il flop più bruciante è quello della Liguria che perde addirittura il 18,5% del suo fatturato. Una testimonianza, l’ennesima, di come siano slittati gli equilibri strategici e territoriali della produzione italiana e di come il (vecchio) triangolo industriale Milano-Torino-Genova sia sulla strada di essere consegnato alla storia a favore del Nord Est e, chiaramente, della stessa Milano. Che, però, da parte sua non se la passa granché bene. La Lombardia, difatti, ha perso lo 0,8% dei suoi ricavi. Mentre, a proposito di triangoli industriali, il Piemonte balbetta e si ritrova ridimensionato, sul fronte del fatturato, del 2,9%. Ma se la capitale “morale” del Paese non festeggia, nemmeno quella politica fa festa: il Lazio boccheggia con il 3,2% di ricavi in meno. Ciò accade a causa del brusco stop del settore immobiliare e dell’edilizia, rispettivamente frenati dalla querelle Superbonus, crediti incagliati e dai dubbi che arrivano dalle legislazioni green europee e, soprattutto, dalla politica monetaria restrittiva, cioè dai tassi alti, che scoraggiano chiunque ad accollarsi un mutuo. Ma succede soprattutto per “colpa” del flop della manifattura. Che, stando a Unimpresa, ha perso il 3,2% del fatturato. Questa è la cartina al tornasole che inchioda la Germania: da locomotiva a grande malato d’Europa. Solo che il mal comune, in questo caso, più che esser mezzo gaudio è un contagio e pesa, e non poco, sull’economia industriale di un Paese, come l’Italia, che negli ultimi decenni s’è collegato alle commesse tedesche. C’è inoltre il capitolo energia: per Unimpresa la fornitura di energia elettrica e gas, che scende del 16,7% a 179,8 miliardi, con una perdita di 35,9 miliardi, riflesso del calo dei prezzi e della domanda. Ciò consente di vedere in tralice un altro (grande) problema della produzione italiana: le bollette, sempre più alte, che fanno più paura del cuneo fiscale. Tuttavia qualche buona notizia c’è. Le aree del Sud, dalla Campania alla Sicilia, risultano in crescita. E, riferiscono da Unimpresa, “lasciano ben sperare”. Del resto se si parla, da tempo, della ritrovata centralità del Mediterraneo un motivo ci sarà. Dal punto di vista, invece, dei settori in crescita c’è il comparto del turismo che vive una stagione brillante: i fatturati di hotel e ristoranti sarebbero in aumento del 6,1%, quelli di agenzie di viaggio e di noleggio salirebbero del 7,68%.
Ma c’è un altro problema che gli industriali italiani sanno di dover affrontare. La mancanza di lavoratori formati e dotati delle competenze adatte per la produzione. Secondo Fondimpresa, ente di formazione di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, “l’inverno demografico ed i fabbisogni connessi alle transizioni digitali e ambientali minacciano l’economia italiana; la risposta è in più formazione, anche di lavoratori in paesi terzi”. In pratica occorre avviare corsi di formazione nei Paesi da cui partono i migranti. Ciò per porre una pezza al saldo occupazionale passivo, stimato in circa 1,3 milioni di unità atteso entro il 2028. Per farlo “bisognerà aumentare l’occupazione del 3,7% annuo oppure, con più realismo, del 2% annuo, assorbendo contemporaneamente 120mila lavoratori esteri, sempre all’anno”. Per Fondimpresa, infine, un secondo obiettivo riguarda le politiche attive del lavoro: formare non solo gli occupati, ma anche gli occupabili, partendo dalle esigenze specifiche delle aziende, identificando i candidati e garantendo il contratto alla fine del percorso.
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